CHI SIAMO

INDICE

REDAZIONE

CONTATTI






Silvano Zucal si occupa, soprattutto negli ultimi anni, di pensatori come Maria Zambiano che analizzano il tema del dialogo. Il suo ultimo libro, un successo editoriale, Maria Zambrano, il dono della parola, ed. Bruno Mondadori, è uno studio approfondito della filosofa spagnola. Nella nostra rivista-laboratorio siamo rimasti colpiti da un filosofo che ha studiato con passione una filosofa. In questa intervista Silvano Zucal mette in luce diversi aspetti del suo incontro con la Zambrano: una modalità femminile di stare nella storia, il significato della confessione, il senso del nascere, il proprio volto e la maschera.





  1. Professor Zucal mi ha colpita la sua valorizzazione di una figura femminile nella filosofia, sappiamo quanto poco le donne abbiano contato in questo ambito, cosa l’ha spinta allo studio della filosofa spagnola Maria Zambrano?

R. Negli ultimi anni il mio interesse si rivolge alla filosofia dialogica, alla filosofia della relazione e alla filosofia dell’incontro e tutto si gioca intorno al tema della parola, all’elemento fondamentale della parola. Mi è capitato piuttosto per caso, onestamente, di ascoltare un intervento su Maria Zambiano e sono stato piuttosto rapito e colpito. Da questo intervento ho colto non solo, come capita quando si ascolta un intervento su un filosofo, un approccio originale, interessante e stimolante ma un diverso approccio


nella foto: Silvano Zucal

    D. Questa diversità in cosa consiste?

R. La diversità non era soltanto un ulteriore contributo a queste tematiche, era un ribaltamento della prospettiva fondamentale che investiva la stessa comunicazione linguistica. Non proponeva solo una filosofia della parola, ma investiva la modalità strutturale della filosofia. Allora il primo incontro con Maria Zambrano è stato la lettura di un libro mentre tornavo dalla Sardegna in aereo


D. Quindi in un post vacanza?

R. Sì, ero al ritorno da una vacanza. Ho letto, dicevo, “La confessione come genere letterario e come metodo” che per conoscere Maria Zambrano è il primo libro che consiglio. Qui la filosofa parla delle figure e delle modalità della confessione, confessione ovviamente in senso filosofico ed esistenziale, come modalità ed elementi inveranti la relazione. L’aspetto più stimolante, più interessante e più attuale è che in questa ricostruzione della parabola della confessione mette accanto modalità autentiche e modalità inautentiche della confessione. Modalità autentiche come la confessione di Giobbe davanti a Dio della sua incomprensibilità e la confessione di Sant'Agostino a confronto con confessioni artificiali, lei cita in particolare Rousseau che, senza voler esser irriverenti, nel mondo mediatico di oggi potremmo paragonare alle confessioni che avvengono al Grande Fratello. Quindi la confessione è il momento in cui la persona si apre all’altro con il codice fondamentale che in tutto il pensiero di Maria Zambrano è il codice della passività. È un codice che lei indubbiamente ha attinto dalla sua dimensione femminile, passività ad accogliere non tanto come remissività, non è un sinonimo di remissività, ma appunto è una prospettiva di ricettività


  1. Quindi è un mettersi in ascolto?

    R. Sì, ma un mettersi in ascolto radicale


  1. Fenomenologico?

R. Fenomenologico, radicale. Qui è nato per me l’incrocio e l’interesse per l’aspetto femminile. È importante soprattutto questo aspetto dell’attenzione autentica che non è l’attenzione mentale, non è l’attenzione-concentrazione, ma è l’attenzione a decentrarsi. A togliere il baricentro dal sé per aprirsi all’altro


  1. Questo è fondamentale in un rapporto terapeuta paziente…

R. Dovrebbe esser questo. Ciò si coglie quando lei critica in modo radicale la psicoanalisi, in quanto prospettiva asimmetrica, totalmente asimmetrica. Prima di scrivere il mio libro ho promosso un altro piccolo libro di Maria Zambrano dal titolo Donne, libro che raccoglie scritti sul tema femminile. Sono testi che lei pubblicava sui giornali spagnoli prima dell’esilio (avvenuto a causa del regime franchista n.d.r.) in cui lei sostiene una tesi fondamentale. Il grande problema del femminile è non essere femminista, nel senso che il problema non è una partita a scacchi sul terreno del potere accettando che le modalità del potere siano già quelle determinate dal mondo maschile per come è andato consolidandosi. Questo è il rischio del femminismo. Il problema è se la donna riesce chiaramente ad entrare in gioco nella storia, Maria Zambrano è entrata e ha pagato tutta la vita questo suo essere filosofa, voler essere politicamente impegnata, compromettendosi e pagando tutta la vita con l’esilio le sue scelte. Tutto ciò non per femminismo, ma per cogliere che c’è una modalità femminile di stare nella storia. Quindi ho raccolto questi testi sul ruolo della donna e sul significato della sua presenza nell’università, nella storia, nel contesto più largo. Questo è stato il prologo per il mio lavoro


  1. Quindi questo porsi nella storia come femminile vuol dire non tanto porsi in antagonismo al e col maschile, ma porsi per integrarsi

R. Sì, per integrarsi e soprattutto per introdurre delle dimensioni rimosse, di una dimensione che non è irrazionale ma è la dimensione che può condurre ad una diversa razionalità, ad una diversa intelligenza del sé e anche ad una intelligenza della relazione. Anche ad esempio se tentiamo di guardare con uno sguardo un po’ più panoramico alla filosofia del ‘900 e alle tematiche più esistenzialmente significative poste in luce come il tema della morte, me ne sono occupato in altri libri, è molto interessante che in Maria Zambrano il tema apicale non è il tema della morte ma quello della nascita, un tema molto rimosso nella storia dal pensiero filosofico. E della nascita vista poi, come la vede Maria Zambrano, come un dato permanente dell’esistenza, ogni fase dell’esistenza è un nascere


  1. È straordinario questo!

R. Un nascere che richiede un bis-nascere, per poter rinascere. La patologia per Maria Zambrano, la vera patologia al di là di quelle cliniche o depressive, la vera patologia è la cristallizzazione, il chiudersi in un grembo rassicurante ritenendo di aver ormai acquisito le proprie sicurezze, di aver configurato il proprio essere, non accettando di disfarlo. Se uno non accetta di disfare il proprio essere si cristallizza e inebetisce


  1. Quindi in sostanza bisogna mettersi in discussione continuamente, il vero filosofo fa questo

R. Il vero filosofo, se vuole essere un filosofo e non giocare solo la propria battaglia nel celebrare una grande attrazione auto-appagante, dovrebbe far questo


  1. Noi vogliamo mettere in luce questo, altrimenti che cura filosofica andiamo a proporre?

R. Appunto, la filosofia dà all’uomo e alla donna che si paralizzano, che si chiudono e che ritengono conclusa la propria parabola, questo messaggio: non c’è mai una parabola conclusa


  1. Quindi è un bellissimo messaggio che stiamo dando a chi ci legge

R. Sì. Un altro elemento che la Zambrano pone è l’elemento del chiaro scuro legato alla sua formazione in filosofia quando entra all’università e incontra due grandi maestri Zubiri e Ortega. Va alla lezione di Ortega e coglie la filosofia come un messaggio limpido e cristallino ma profondo, mentre alla lezione di Zubiri coglie la filosofia come un messaggio di terrificante oscurità al limite dell’incomprensibilità ma ugualmente profondo. Qui nasce la sua crisi perché due grandi personaggi della filosofia spagnola mostrano due paradigmi così diversi e allora lei racconta di essere in aula e di veder entrare da una tenda il sole, ma c’è una tenda quindi c’è il chiaro-scuro. È un chiaro- scuro del linguaggio e della prospettiva che è molto liberante anche dal punto di vista esistenziale. Il chiaro-scuro è la condizione esistenziale reale in cui noi ci situiamo e anche il pensiero deve in qualche modo adeguarsi, farsi interprete del chiaro-scuro


  1. È molto interessante il suo discorso sul “il proprio volto”, come lei lo definisce, cosa intende e in che modo esso entra in relazione con l’altro?

R. Il tema del volto è complesso non solo con Zambrano ma anche con Max Picard un medico che abbandona la medicina per dedicarsi alla filosofia. L’uomo ha un muso come l’animale, ha una faccia, questa è la peculiarità dell’animale uomo in rapporto all’animale scimmia, è sulla faccia che tutte le cosmesi si avventano per risistemarla, per rifarla. Poi ha un volto che non è né il muso né la faccia. Infine c’è la dimensione della maschera che rischia di nascondere non solo la propria faccia ma di nascondere il proprio volto. È una tentazione permanente quella di nascondere il volto, riducendo il volto a sola faccia o addirittura a solo muso. Gli aggiustamenti sono maschere facciali che tendono ad annullare il volto


  1. È proprio vero, le maschere facciali annullano il volto! Perché c’è questa tendenza permanente ad annullare il proprio volto?

R. Perché il volto è il momento della massima esposizione di sé, è il momento in cui ci mettiamo davvero difronte all’altro. Nel volto passa la nostra dimensione profonda, è una forma di visibilizzazione dell’invisibile, conduce paura, timore e refrattarietà. Solo che il vero incontro tra esseri umani è un incontro di volti è una capacità di reggere questa reciproca nudità. È bellissimo quando Max Picard, in un testo che pubblicheremo presto, fa un viaggio in Italia passando anche per Milano e con sguardo attento racconta di un incontro alla stazione Centrale con una persona che ha il coraggio di auto esporsi, ha un volto radioso, mentre ciò che prevale è il rattrappirsi dei volti. È bello questo suo fare una sorta di topografia dei volti dove l’umano emerge. In un periodo ipermediatico come il nostro abbiamo una capacità di rifornimento di maschere facciali e quindi di annullamento di volti che è terrificante. Una società che non sopporta più l’erompere dei volti, la vera patologia è la corsa continua a soffocare questa nudità rivelatrice, la nudità invece ci espone a relazioni autentiche


  1. Di cui siamo sempre meno capaci

R. Meno capaci perché dobbiamo reggere la fatica del non essere omologati


  1. L’omologazione dovrebbe affascinare da adolescenti e non più una volta diventati adulti...

R. Gli adulti sono adulti o hanno perso la capacità di mettersi in gioco, di ri-nascere?


  1. Allora prendendo in considerazione Maria Zambiano si può dire che molti adulti si sono fermati e non sono più ri-nati. Da filosofo teoretico, cosa può dirci circa il valore della filosofia come “cura”?

R. Non mi occupo di pratiche filosofiche, ma considerando i temi che affronto nei miei corsi, il tema della morte, il tema dell’amore, del dolore, del dono…il grande vantaggio della filosofia come cura è l’accostarsi in modo serio ad una sapienza problematica, non dogmatica. Ciò permette all’interlocutore di cogliere che queste problematiche sono problematiche che in qualche modo hanno inquietato altri e poiché la filosofia non dà ricette è la vera cura. Noi siamo in un mondo in cui si cercano ricette farmaceutiche, terapeutiche….Per un attimo non avere la ricetta pronta ti porta a cercare un’altra ricetta che possa risolvere e attutire il disagio esistenziale. La filosofia non dà ricette, illumina orizzonti, poi ognuno sente dove trova un accompagnamento congeniale in una o nell’altra prospettiva. La filosofia come cura è un tornare ad un’autointerrogazione che diversamente dalle ricette ti porta delle domande e questo può non sembrare terapeutico...


  1. Invece lo è molto

R. L’interrogazione è la vita, noi siamo un’interrogazione aperta. Quando ci interroghiamo godiamo e la risposta dà origine ad un’altra domanda. Diventa un crocevia di domande


  1. È un po’ ciò che ci ha insegnato Socrate…in che cosa differisce dalla psicoanalisi?

R. Il filosofo mantiene la simmetria. Filosofo non è chi ti risolve i problemi, non si pone da maestro, è maestro per crearti le condizioni per partire da solo e andare avanti ad auto-interrogarti. Questa per me è la condizione curativa


  1. Quindi la differenza sostanziale dalla psicoanalisi è questa: il filosofo ti aiuta a ri-trovare te stesso per poi andare avanti da solo

R. Esattamente


  1. Senza una ricetta preconfezionata: il preconfezionato non va ben per tutti…

R. Non va bene per tutti e poi si crea una situazione di dipendenza. La filosofia crea condizioni per una progressiva indipendenza


  1. A suo parere cosa spinge l’uomo contemporaneo ad un rinnovato interesse per la filosofia?

R. Credo che da un lato è la caduta delle grandi ideologie che avevano una genesi magari filosofica, ma orizzonti rassicuranti ed hanno creato una forte dipendenza. Poi una difficoltà anche delle chiese e delle religioni. Questo determina un bisogno emergente di risposte a domande: da dove veniamo, dove andremo a finire, chi siamo, qual è la nostra identità. In questa cornice emerge la domanda di filosofia come domanda e possibilità di affrontare le tematiche fondamentali del significato del proprio vivere, relazionarsi, comprendersi


  1. Poi, come dice lei, le persone capiscono che la filosofia non ti vuole dare una ricetta

R. Questo è fondamentale, non ti vuole inquadrare, non ti vuole ingabbiare. È un’area di libertà che la tradizione occidentale ha creato nei suoi 2500 anni. Il bisogno di filosofia nasce anche a mio parere dall’omnipervasività della tecnica, questo mondo in cui rischiamo di essere una protesi…Io non ho il telefonino, sono uno dei pochi esseri umani liberi dal telefonino. Tutti gli strumenti possono essere usati ma noi rischiamo di diventare una protesi


  1. Ci stiamo robotizzando

R. Sì e questo crea forme di disagio, di sazietà perché diventiamo una protesi degli strumenti tecnici. Così la mia giornata viene scandita all’esser avviticchiato ad un computer, per un attimo mi seduce anzi rischio di essere totalmente sedotto, poi rischio di essere totalmente annullato

M.G.F.



Torna indietro

L'accento di Socrate