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Il linguaggio, si sa, è come un organismo vivente in continua evoluzione, come tale si può anche ammalare e non sempre la cura è risolutiva; ogni giorno nascono nuove parole e ne cadono in disuso altrettante, ma chi è che decide? L’Accademia della Crusca o il popolo? A quanto pare è quest’ultimo contagiato e istigato dal deprecabile pressappochismo dei mass media; brevemente vorrei toccare in modo semplice e discorsivo alcuni punti della comunicazione verbale che a mio avviso vengono maltrattati. Termini stranieri vengono usati e pronunciati in modo inappropriato, accenti grafici sconosciuti, accenti tonici spostati con conseguente pronuncia errata anche delle parole italiane: si dovrebbe pronunciare diàtriba e non diatrìba, guaìna e non guàina, facocèro e non facòcero. Siamo bombardati dalle inflessioni regionali di quanti parlano alla radio e alla televisione: sci, invece di ci, sce invece di ce; la zeta al posto della esse, ricordo che quando ci fu il disastro aereo di Ustica per giorni dovetti sentire pronunciare dai vari dicitori di turno Marzala tanto che mi venne il dubbio che parlassero di un’altra località. Siamo distanti anni luce da quando Alberto Sordi nell’episodio diretto da Luigi Filippo D’Amico “Guglielmo il Dentone” tratto dal film “I complessi” dava le notizie del telegiornale in modo tanto esemplare quanto invidiabile.

A nulla serve auspicare o incitare correzioni, è sufficiente che un mezzo di grande comunicazione, come la televisione appunto, inizi ad usare un termine in modo errato che, come per moda, la maggioranza lo segua fino a renderlo, di fatto, accettato anche se scorretto. Portare il pantalone o la scarpa o l’occhiale sono diventate ormai forme espressive d’uso comune che dimostrano come la lingua venga vessata. Neppure le lettere dell’alfabeto si salvano, non si dice più vi, ma vu in modo da confondersi con la vi doppia che veniva anche chiamata vu per non confonderla con la vi. Sembra quasi che se non si storpia la lingua si è “out” ossia fuori, naturalmente dagli obbrobri di certe mode.

Si continua a pronunciare “praivasi” anziché “privasi” oppure ad usare il termine “fare outing” per definire qualcuno che dichiara un modo di essere relativo a sé stesso mentre “fare outing” andrebbe usato per dichiarare modi di essere relativi ad altri. Per se stessi, se proprio si vuole adottare un termine inglese, c’è “fare coming out”, ma purtroppo fanno tutti orecchie da mercante ed imperterriti perseverano ad usare “fare outing ” per parlare di sé stessi al punto che anche i dizionari si adattano.

La lista potrebbe continuare e pubblicare il dizionario degli errori/orrori potrebbe essere un’idea, ma non è mia intenzione elencare in questa sede tutti i vari termini, italiani e non, che vengono quotidianamente storpiati anche da quelle persone che dovrebbero essere da esempio, bensì porre l’accento su come il malcostume linguistico abbia facile presa su un terreno privo dell’humus culturale necessario per un corretto ed appropriato uso della lingua che una volta veniva fornito fin dalla scuola primaria.

È un dato di fatto che dalle nostre università escono troppi laureati che non sanno scrivere come si converrebbe ad uno studente che ha passato non meno di 16 anni dietro i banchi di scuola e, checché ne dicano alcuni, questa impreparazione non influisce solo sul linguaggio, ma si estende alla preparazione specifica delle singole discipline venendo a creare una classe di professionisti dequalificata già in partenza. C’è in proposito un interessante articolo di Maurizio Corsetti su Repubblica dell’8 dicembre 2009.

Cui prodest scelus, is fecit” scriveva Seneca in Medea, è sempre buona norma porsi questa domanda ogni qualvolta ci si trovi di fronte qualcosa di poco convincente quindi ce lo poniamo anche in questo caso, ma la risposta tarda a giungere, l’unica cosa che ci resta è come sempre l’ultima dea e sperare che se ci capiterà di finire nelle mani di un qualsiasi professionista sia quello giusto. M.B.



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L'accento di Socrate