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In una delle sue opere di maggior risonanza, Charles Taylor individua nel rimpiazzamento del riconoscimento dell’onore, come massimo valore umano, con quello della dignità, uno dei tratti peculiari della modernità. La dignità dell’uomo viene infatti oggi posta come un vero e proprio valore, identificabile come segue:


Il valore che qui viene individuato, dunque, è una potenzialità umana universale, una capacità comune a tutti gli umani. E’ questa potenzialità, e non ciò che una persona può averne o non averne fatto, ad assicurarci che ognuno merita rispetto […] (anche se) la richiesta di un uguale riconoscimento non si ferma a una presa d’atto dell’uguale valore potenziale di tutti gli umani ma comprende anche l’uguale valore di ciò che essi hanno ricavato, di fatto, da questa potenzialità[1]

Di fronte a tale moderno valore, per Taylor, il liberalismo si è (pro)posto come quella forma politica in grado di fungere da garante di questo valore stesso (la dignità degli uomini), argomentando come al suo interno possano albergare uomini fra loro di fatto diversi, ovvero, uomini che hanno realizzato diversamente quella che lo stesso Taylor chiama potenzialità umana universale, vedendosi così riconosciuti e garantiti, indipendentemente dalle differenze, nella loro dignità sia “potenziale” che “fattuale”. Tuttavia, prosegue Taylor, il liberalismo fallisce in tale sua pretesa funzione di garante delle differenze e della universale dignità umana, per un duplice ordine di motivazioni. In primo luogo, poiché il liberalismo più “duro” si basa su un sistema cristallizzato di regole, refrattario a qualsiasi sorta di modificazione, che postpone i fini collettivi a quelli individuali, dimostrandosi così ospitale verso gli individui e, al contempo, inospitale verso le culture differenti dalla propria;

insomma un certo tipo di liberalismo dei diritti, è inospitale verso la differenza perché a) tiene ferma l’applicazione uniforme delle regole che definiscono i diritti e b) vede con sospetto i fini collettivi[2]

In secondo luogo, in quanto il liberalismo più “morbido” che, per la sua presunta neutralità, si pone come garante e terreno d’incontro per tutte le culture, è invece il frutto di una determinata cultura: quella cristiana, infatti


            il liberalismo occidentale non è tanto un’espressione di quell’atteggiamento laico e postreligioso che è così popolare fra gli intellettuali liberali quanto una filiazione organica del cristianesimo […] la divisione fra chiesa e stato risale ai primissimi tempi della civiltà cristiana […] Lo stesso termine secolare apparteneva in origine al vocabolario cristiano […] (pertanto) il liberalismo non può né deve arrogarsi una completa neutralità culturale. Il liberalismo è anche un credo militante, e sia la variante ospitale […] sia le sue forme più rigide hanno degli steccati da innalzare[1]

In sintesi, il liberalismo o omogeneizza le differenti culture, o le riconosce formalmente salvo poi non offrire loro la possibilità di sopravvivere[2]. Come è noto, per Taylor l’alternativa al liberalismo risiede in un “multiculturalismo su base comunitarista”, che rappresenta 

            una via di mezzo fra la domanda, inautentica e omogeneizzante, di un riconoscimento di uguale valore da un lato e il murarsi da sé entro i propri criteri etnocentrici dall’altro. Le altre culture esistono, e dobbiamo vivere sempre più insieme, sia su scala mondiale sia, strettamente mescolati, in ogni singola società[3]

     Insomma, si può dire che oggi ci si trovi al cospetto di due vettori che spingono in direzioni contrarie e, sembrerebbe, inconciliabili ma che, paradossalmente, fungono l’uno da propellente per l’altro: la forza centripeta dell’omologazione universale e quella centrifuga della differenziazione, in altri termini, un processo omologante di de-territorializzazione versus un fenomeno diversificante di ri-territorilaizzazione, di ritorno alla comunità, alla piccola patria peculiare nelle sue differenze dalle altre (è chiaro che l’incremento di ciascuno di questi due processi sollecita, come risposta, la crescita dell’altro); ed anche l’abbattimento delle “barriere” fisiche (emblematicamente rappresentate dall’apertura prima e dalla caduta poi del muro di Berlino, rispettivamente nel 1989 e nel 1990) viene assorbito in questa disputa, o come dimostrazione dei procedimenti “deterritorializzanti”, o come stimolo ai fenomeni “riterritorializzanti”. Queste dinamiche, che sottendono agli ormai noti conflitti di identità, sono state, a livello filosofico, derubricate come contesa tra Liberalism e Communitarianism, ma a livello pratico-politico designano la scollatura fra il concetto di cittadinanza e quello di appartenenza. L’appartenenza, infatti, oggi non può più risolversi completamente, come nel passato, nella cittadinanza, l’appartenenza viaggia ormai attraverso delle categorie, simboliche, morali, valoriali, che la cittadinanza non è in grado di soddisfare. Tuttavia, l’appartenenza stessa non può neanche risolversi solamente in logiche identitarie comunitarie, poiché


La logica multiculturale […] finisce per cristallizzarsi in un sistema di differenze «blindate» che, a onta della conclamata «politica della differenza» (politics of difference), si atteggiano come identità in sedicesimo: monadi o autoconsistenze insulari interessate esclusivamente a tracciare confini netti di non-ingerenza. Come infrangere questa rigida clausola di non-ingerenza, che in apparenza estende ma in realtà stravolge l’idea di differenziazione rovesciandola in frammentazione e proliferazione meccanica della logica identitaria?[1] 


Personalmente, credo che la risposta alla suddetta domanda richieda un radicale mutamento di prospettiva nell’affrontare le questioni inerenti al pluralismo culturale, ed al relativo sedicente pluralismo etico; facendo mio un passo di Amartya Sen, ritengo infatti che gli approcci sinora esaminati siano

accomunati dall’errata convinzione che le relazioni tra esseri umani differenti, con tutte le loro diverse diversità, possano in qualche modo essere espresse sotto forma di rapporti tra civiltà, invece che di rapporti tra persone[1]

Intendere le relazioni umane come rapporti tra persone, anziché tra civiltà o comunità, è, a mio avviso, l’unico modo per decriptare le questioni, attualissime, inerenti al riconoscimento delle differenze identitarie, in un quadro di valori e principi universalmente valido per tutti gli uomini in ogni tempo e sotto ogni clima: assumendo le persone come vertice ottico, risulta evidente come esse siano al contempo diverse ed uguali fra loro. Le diversità originano dalla contingenza, ogni identità è infatti sempre un’identità contingente, non solo e non tanto nel senso di essere situata, quanto piuttosto nel senso di essere determinata sia da fattori indipendenti dalla volontà umana, sia da scelte compiute, costantemente, da ciascun uomo. L’uguaglianza risiede invece in una comune costituzione antropologica essenziale, che rappresenta una sorta di pattern universale, sopra il quale ciascuno dipinge la propria esistenza come vuole e come può. Ne consegue pertanto, che ad un sostrato antropologico comune sia applicabile una etica universale, ad esso rispondente, e che ad una pluralità di “dipinti”, su tale sostrato eseguiti, corrisponda una pluralità di formae mentis e di culture, le quali, per non scadere in un logica di “ghetti contigui”, di “differenze blindate” senza porte né finestre, di «piccole isole, ciascuna fuori dalla portata intellettuale e normativa dell’altra»[1], devono, e possono, essere costantemente aperte le une verso le altre; ma in che modo?

Da F.-M. A. Voltaire a John Locke, sino a Karl R. Popper, la tolleranza è sempre stata individuata come il necessario baricentro della convivenza umana (un baricentro, a volte, anche strumentalizzato)[2], tuttavia tale concetto, che ha fatto compiere un incommensurabile balzo qualitativo alla nostra civiltà, si espone ad un duplice ordine di critiche: innanzi tutto, la tolleranza viene elargita da chi ha la volontà di tollerare, ma ciò significa che costui, in futuro, potrebbe non avere più tale volontà e, dunque, non tollerare più; inoltre, il concetto di tolleranza tende a scivolare verso quello di sopportazione, dietro il quale si cela una pressoché totale svalutazione delle posizioni altrui. Sono queste le problematiche insite nella nozione di tolleranza, manifestantesi sia nella sua applicazione interpersonale che in quella interculturale (si pensi al multiculturalismo ed alla cosiddetta “politica della differenza”). Per questo, sarebbe oggi opportuno spostarsi dal tema della tolleranza a quello del rispetto: non tollerando, bensì rispettando l’altro è possibile relazionarsi, confrontarsi autenticamente con lui, “contaminandosi” vicendevolmente, in quanto ciascuno mantiene la propria irriducibile autonomia e le proprie differenze specifiche, derivanti dal determinato, contingente modo di sviluppo e soddisfazione delle facoltà e necessità umane,  senza però trincerarsi in esse e dunque modellandosi nel “contatto inquinante” con l’altro («non si può simultaneamente sciogliersi nel godimento dell’altro, identificarsi con lui, e restare diversi»[3]). Se vogliamo vivere insieme, non nonostante, ma grazie alle diversità,

Se vogliamo scongiurare lo sfruttamento meramente commerciale della diversità ed evitare lo scontro fra culture che si verifica quando la diversità alimenta paura e rifiuto, dobbiamo attribuire un valore positivo a […] contaminazioni e a […] incontri, che aiutano ciascuno di noi ad allargare la propria esperienza, rendendo così più creativa la nostra cultura […] (per questo) Il cosmopolitismo, inteso realisticamente, significa […] accettare gli altri come diversi e uguali. In questo modo viene nello stesso tempo svelata la falsità dell’alternativa tra diversità gerarchica e uguaglianza universale. Così, infatti, vengono superate due posizioni, il razzismo e l’universalismo apodittico[1]


Risulta così evidente come l’irriducibilità di una persona ad un’altra, di una cultura ad un’altra, non implichi l’impossibilità del confronto, al contrario, esso avverrebbe autenticamente grazie ad una sorta di “universalismo delle differenze”, di “sintesi disgiuntiva”, in cui proprio l’inassimilabilità delle singolarità costituisce il trait d’union fra le stesse, potendo il tutto avvenire sul terreno di una etica universale, antropologicamente fondata.

            La civiltà mondiale non può essere altro che coalizione, su scala mondiale, di culture ognuna delle quali preservi la propria originalità (difatti) le differenze non si identificano mai con l’essere, ma sempre lo differenziano. E soltanto perché lo differenziano producono il fenomeno del divenire, della vita […] Solo per questa via, solo affermando questo passaggio, possiamo far esplodere il dispositivo della metafisica, che poi fa tutt’uno con il dispositivo del potere: l’idea dell’Uno come unità delle differenze[1]  



*Federico Sollazzo - Dottore di Ricerca in "Filosofia e Teoria delle Scienze Umane", Università degli Studi Roma Tre - curatore di "CriticaMente" http://costruttiva-mente.blogspot.com/ (2010)



Note al testo:

[1] C. Taylor, Multiculturalismo, Anabasi, Milano 1993, pp. 63-64, parentesi mia; la transizione dall’onore alla dignità umana, che per Taylor è frutto della modernità, ricorda quella dalla libertà alla sacralità della vita umana che per la Arendt di Vita activa deriva dal cristianesimo. 

[1] Ibidem, p. 87

[1] Ibidem, p. 89, parentesi mia.

[1] Cfr. E. Pariotti, Individuo, comunità, diritti: tra liberalismo, comunitarismo ed ermeneutica, Giappichelli, Torino 1997.  

[1] C. Taylor, Multiculturalismo, cit., p. 102.

[1] G. Marramao, Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 95. Riflettere sulla nozione di cittadinanza, significa farsi carico dell’odierna caduta dei legami etico-politici e del compito di «ri-progettare e ripopolare l’agorà ora in gran parte vuota, il luogo d’incontro, di dibattito e di negoziazione tra individuo e bene comune, pubblico e privato», Z. Bauman, La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002, p. 153, dello stesso autore cfr. Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 2006, e La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2006; sulla questione della “differenza”, in chiave politica cfr. I. M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996.   

[1] A. Sen, Il ballo in maschera dell’Occidente, in «la Repubblica», 30/06/06.

[1] A. Sen, Globalizzazione e libertà, cit., p. 59; cfr. anche, dello stesso autore, Reason Before Identity, Oxford University Press, Oxford-New Delhi 1999.

[1] Cfr., per i riferimenti principali, F.-M. A. Voltaire, (voce) Tolleranza, in Dizionario filosofico, Mondadori, Milano 1970, J. Locke, Saggio sulla tolleranza, Laterza, Bari 1996, J. Locke, Scritti sulla tolleranza, UTET, Torino 1997, K. R. Popper, La società aperta e suoi nemici, Armando, Roma 1996, e H. Marcuse, Tolleranza repressiva, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002; sui meriti ed i limiti della nozione di tolleranza cfr. A. Masullo, I paradossi della tolleranza, in «La città nuova», n. 7, 1992.

[1] C. Lévi-Strauss, Razza e cultura, in Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino 1984, p. 29.

[1] A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, il Saggiatore, Milano 2002, p. 197, e, dopo la parentesi mia, U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005, p. 82.

[1] C. Lévi-Strauss, Razza e Storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, p. 139, parentesi mia, e G. Marramao, Passaggio a Occidente, cit., p. 215.


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