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Dell'Altro che ci abita nella stanza della memoria


Home is where we start from ( D. W. Winnicott)


Nessuno – dice Pascal, - muore così povero da non lasciare nulla in eredità”. Ciò vale anche per i ricordi – solo che essi non sempre trovano un erede (W. Benjamin)


La memoria è una stanza, vi entriamo a passo di danza, appoggiamo il piede leggeri e soavi senza prendere possesso, solo per ri-trovare, il più delle volte rinvenire, forse davvero inventare (in-venio) e incontrare per la prima volta noi stessi: quelli che fummo a preparare quelli che saremo. Nei casi felici, se conosciamo l’arte antica di spalancare tutti i sensi - soprattutto olfatto, gusto, tatto oltre a vista e udito – inciampiamo, in questa stanza, nel nostro “sarò stato” e non è atto maldestro bensì alea di fortuna. Il Futuro Anteriore è notoriamente Futuro nel Passato: già, entrare, sapere entrare a passo di danza in quel passato dove noi - in dialogo con le diverse istanze che ci abitano, ci spinsero e ci spingono a interagire con gli altri e col mondo esterno – mai fummo o potemmo essere.

Qualcosa attende dunque quell’Io che ancora non c’era quando già la memoria si sedimentava; in sofferenza c’è talvolta una ripetizione della natura del trauma, la ripetizione come Wiederholungszwang: demonica “coazione a ripetere”, studiata e tanto struggentemente esposta da Sigmund Freud in Al di là del principio di piacere (1920).

Allorché i reduci del primo conflitto mondiale - scontro che produsse uno sconvolgimento senza precedenti rappresentazionali per l’umana psiche - tornavano dal fronte, essi, lungi dal dimenticare, agivano nei sogni non desideri rimasti insoddisfatti lungo le giornate, bensì dolore e paura, angoscia e ansie deflagranti. Rispetto al vissuto traumatico, che buca e provoca combustione, la danza della memoria si accomoda in un mondo che sa ancora conoscere stupore e meraviglia: alla tela di Burri essa risponde con le ballerine di Degas o con la grazia, carnale e lieve, delle ninfee di Monet. La danza della memoria ci accompagna sulle tracce di una fanciullezza dove mai dicemmo “io” e che proprio per questo, per coloro i quali sono in grado di attingervi senza portarla alla coscienza, diventa materia, essenza e base, imprimitura di ogni poiein.

Potrei proporre un’equazione che mette in gioco due opere letterarie di Joseph Conrad: Il compagno segreto (The Secret Sharer) e Cuore di tenebra (Heart of Darkness). Pensando proprio a questi due racconti lunghi o romanzi brevi ho intitolato il mio contributo non solo alla stanza della memoria ma pure all’altro che ci abita. C’è sempre un altro che ci abita, dipende solo da quale altro vogliamo egli sia: co-inquilino mite e socievole, compagno di strada pronto a con-dividere (to share) con noi uno spazio nutritivo e fruttufico. E allora sarà, è una stanza spoglia e imbiancata di fresco in cui dispiegare la nostra progettualità e accomodare il nostro Futuro nel Passato, in maniera tale che risulti bonificato da tutte le identificazioni proiettive, sadicizzanti e tossiche per noi e per gli altri. Così è dato sottrarci al paradigma immunitario / autoimmunitario che popola la fantasmatica di un Occidente greve 1 di vecchiezza stenta e avara.

In altri casi, tuttavia, pulserà un cuore di tenebra, un nucleo oscuro e distruttivo come la notte di Hegel in cui tutte le vacche sono nere. Al posto della stanza eccoci rintuzzati dall’altro che ci abita in un antro desolato e squallido, freddo e - in senso proprio - negletto; dunque incapace di accogliere l’altro noi stesso che allora ci possiede come il demonio e il maleficio condannando alla damnatio memoriae il bambino che fummo e, con lui, ogni fanciullezza dello spirito. Rimarremo così sospesi in un non-luogo dove nessuna eco, nessuna voce può risuonare, men che meno quella della coscienza morale che spinge ad andare incontro allo sconosciuto e allo Unheimliches, dapprima con audace curiosità, indi nell’assunzione gioiosa e piena della nostra responsabilità per tutti i cittadini del mondo: siano essi persone, animali, vegetali, fossili o pietre – oggetti interni cui siamo legati e che furono un tempo per noi animati, oggetti internalizzati 2 che possiamo utilizzare3, proprio perché nessuno di essi è riciclabile.

Nella stanza della memoria il compagno segreto che ci attende è il vigile sorvegliante di tutti gli oggetti che recano l’impronta nostra e dei nostri cari; solco nella cera di quell’infantia che, per parafrasare Lyotard, non mai si parla e si lascia parlare. Oggetti cui siamo talmente avvezzi e per i quali proviamo quell’affectio di spinoziana ascendenza che ci fa essere uomini tra gli uomini nella piena consapevolezza dell’unicità che ognuno di noi reca in sé, con sé per l’altro.

Così approvvigionati per la vita possiamo uscire dal circolo vizioso delle proiezioni deneganti e posare il piede, con levità e insciente contezza, nella camera chiara (Barthes) della memoria di altri (autrui): sia esso il singolo individuo, un popolo, una etnia, un fuggiasco che viene da mondi e logiche affatto differenti. Invece di spoliarlo (nel senso del sost. spoliario4), depredarlo, farne il capro espiatorio delle nostre colpe e dei danni che perpetriamo, giacché non ci permette di specchiarci – noi, talora in aperta malafede, talaltra disattenti o malaccorti - nel suo sguardo smarrito e degno a un tempo, ci verrà allora voglia di metterci in paziente, patito ascolto. Borborigmi di sacertà saliranno nel silenzio attonito dalle viscere dell’anima: sporchi del feto che fummo, saremo forse in grado di rinvenire l’altro dell’attesa, della vigilia, dell’avvento. «Uno deve vegliare», scrive Kafka a se stesso e agli “scapoli del ricordo”, «Uno deve esserci» 5: deve essere in situazione, nel qui-e-ora, per rispondere alla chiamata.

In un saggio di pregna bellezza, proprio dedicato a Franz Kafka, Walter Benjamin - pensatore ebreo-tedesco eteroclita e geniale - ci ricorda con Malebranche che «L’attenzione» è «la naturale preghiera dell’anima»6. Ecco, la nostra disattenzione verso altri e il suo volto (Levinas) è forse quanto di più mortifero e siderante per le società occidentali che immolano creaturalità alle cyberteocrazie glocal-globali.

Se ci riflettiamo, Jago è facile da smascherare e solo la follia di Otello - che s’impiglia nell’invidia di lui in quanto altro che lo abita ma che, più che negato, viene denegato - spinge il Moro di Venezia alla rovina, alla perdita come sconfitta e umiliazione, alla morte sua e dell’oggetto d’amore. Saper riconoscere che il cuore di tenebra pulsa dentro di noi, saper scorgere nello specchio che riflette la nostra immagine il simulacro del demonio che infliggiamo all’altro e al suo mondo, significa tornare a passi di danza nella stanza della memoria; riconciliarsi con noi stessi e con lo straniero che sempre – prima che alla nostra porta – bussa ai nostri ricordi di quando fanciulli assaggiavamo il mondo; donare ospitalità affinché il nemico potenziale che è in noi non venga proiettato su chi chiede asilo e accoglienza.

Al cuore della sapienza e della poesia si muove a passi di danza una figura di pura generatività; sola, essa rende possibile tornare ad abbracciare come fanciulli per trarre da quel tempo, che mai fu veramente nostro, la forza per andare incontro al giorno inesorabilmente adulto.


*Rosalba Maletta, germanista


Note al testo

1 “Greve” dal latino volgare *grĕve(m) da grăvis incrociato col suo contrario lĕvis “leggero”; cfr. Garzanti, Dizionario italiano, Milano 2009, p. 963.

2 Uso di proposito il brutto anglicismo “internalizzare” per distinguerlo dal nostro “interiorizzare”, da intendersi come ciò che pertiene all’interiorità nel senso del “portare

alla coscienza”. Il processo che desidero qui mettere a nudo è assai più arcaico e inconscio; insomma l’uno è precondizione dell’altro.

3 Il riferimento è al “buon uso dell’oggetto” di D. W. Winnicott.

4 Spoliario: «(archeol.) nell’antichità romana, locale adiacente all’arena, nel quale venivano spogliati delle armi i gladiatori morti in combattimento e venivano finiti quelli

feriti mortalmente»; cfr. Garzanti, Dizionario italiano, cit., p. 2197.

5 Franz Kafka, Skizzen, Parabeln, Aphorismen, a cura di Giuliano Baioni, Mursia, Milano 1983, p. 146.

6 Walter Benjamin, Franz Kafka per il decimo anniversario della sua morte in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 284.



Per citare o riprodurre, anche solo parzialmente, questo contributo è necessario chiedere il permesso all’autrice. rosalba.maletta@unimi.it


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