La malattia come cambiamento
Nel dialogo di Platone, Fedone, Socrate sostiene a proposito della propria condanna a morte che “I veri filosofi si esercitano a morire… essi temono il morire molto meno che gli altri uomini!” Questa necessaria presa di coscienza può andare oltre e non considerare il “morire” come riferito esclusivamente alla fine della vita, ma più simbolicamente possiamo interpretarlo come un passaggio da una condizione ad un’altra del nostro vivere nel mondo. La vita è un continuo cambiamento, ogni trasformazione è la morte di ciò che eravamo, nulla rimane mai identico a se stesso ed è con questo mutare perpetuo che noi esseri umani dobbiamo imparare a con-vivere assumendo un atteggiamento il più possibile filosofico. Essere filosofi è soprattutto una forma mentale che si acquisisce con una visione ampia del reale, una modalità di osservazione che non si limiti solo al fatto contingente. La malattia, ancor di più se è cronica, crea uno scompenso nella normale vita quotidiana; ciò consegna una maggior pesantezza all’anima relegandola al ruolo di spugna che assorbe e tenta di attutire disperazione e abbattimento morale. In una simile situazione spesso si vive, e si fa vivere a chi sta vicino, un’esperienza di Purgatorio, luogo intermedio e di passaggio tra i due “regni del non ritorno” che al di là del significato religioso può inserirsi nella condizione di chi ha una malattia. Tutto ciò può portare a domandarsi: “Perché è toccata a me, cosa ho fatto di male per meritarmela?” Se analizziamo questa domanda ci rendiamo conto che accanto al male che ci assale c’è spesso l’idea che potremmo aver fatto qualcosa per meritarlo, che è la punizione per qualcosa che abbiamo commesso. Nulla è più antifilosofico di sostenere questa posizione. Il piccolo filosofo che c’è in ognuno di noi va esercito fin da bambini per imparare ad allontanare l’atteggiamento punitivo e ad assumere una posizione di costruttiva ricerca della soluzione. Se siamo adulti e non conosciamo ancora il piccolo filosofo, possiamo entrarci in contatto imparando a familiarizzare col cambiamento: il trucco sta nell’accettare il mutare delle cose e ciò lo si può ottenere con l’esercizio quotidiano e a piccoli passi. Possiamo iniziare il nostro percorso di accettazione partendo da minime variazioni: scegliamo un percorso alternativo per raggiungere il luogo di lavoro, spostiamo i soprammobili di casa,…..ognuno individui qualcosa che possa interrompere la sequenza prestabilita delle proprie azioni abituali. Se riusciamo a considerare la malattia soprattutto come un cambiamento, pesante e non certo amabile ma sempre un cambiamento, potremmo accettarne gli aspetti peggiori continuando a vivere tutto il resto della nostra esistenza con più serenità. Perché la nostra vita è ancora interessante e ricca di possibilità al di là del malattia: questo non è un ragionamento all’insegna del mero ottimismo, ma una reale valutazione delle cose: la malattia è ormai parte invadente della nostra vita, ma nonostante la sua ingombrante presenza si può affermare che esistono ancora momenti felici. Pare impossibile da credere, ma la felicità non è necessariamente dei sani, è una condizione di chi sa esistere senza farsi condizionare troppo dalle avversità. Non dimentichiamo che il diritto inalienabile alla felicità è nella costituzione americana e ancor prima nell’ideale di buona convivenza umana di Aristotele (384-322 a.C.). Il filosofo greco è convinto che si possa raggiungere una vita appagante solo se le circostanze sono favorevoli ma che il grado di felicità debba essere valutato nell’arco dell’intera vita. Di conseguenza ciò ci conduce alla considerazione che non dobbiamo dimenticare quando eravamo in perfetta salute se vogliamo fare un bilancio reale della nostra vita, sembra banale ma c’è chi nasce con gravi infermità e non ha alcuna esperienza dell’essere sani. Questo approccio a veduta multiprospettica ci aiuta a non appesantire l’anima che ha bisogno di sorreggerci, ispirarci e farci pensare: l’angoscia, la non accettazione, la paura, tutti sentimenti comprensibili, sono solo fautori di una sconfitta. Fanno perdere all’anima (psyché, il soffio vitale) le sue importanti funzioni con il risultato di interferire più pesantemente sul corpo che a sua volta peggiorerà maggiormente il suo stato di salute. La visione di corpo ed anima in intima unione e influenza reciproca è ormai conosciuta come Psicosomatica e la cosa più sorprendente è che Ippocrate di Kos, il padre della medicina, (460-377 a.C.) ai suoi tempi lo aveva già compreso: non ci resta che ricordarlo più spesso. Concludiamo parafrasando Socrate confidando nella sua approvazione, anche se per noi contemporanei è impossibile pensare come i Greci antichi, ci possiamo rendere conto che le problematiche inerenti l’esistenza col passare dei secoli sono rimaste immutate e allora possiamo affermare: “Il vero filosofo impara ad accettare il cambiamento”. Forse il lettore potrà obiettare che è difficile diventare un vero filosofo, ma posso assicurare che è solo una questione di crederci e di imparare ad interrogarsi alla ri-cerca di risposte. Il vero filosofo non è solo un laureato in filosofia, ma quell’essere umano che pensa, si interroga alla continua ri-cerca di nuovi traguardi che possano migliorare la sua (e quella degli altri) permanenza sulla Terra. Maria Giovanna Farina
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