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MA DOBBIAMO PROPRIO FARCI COSI' TANTO MALE?



È notizia di pochi giorni fa che a Torino, grazie alla collaborazione fra il Comune e alcune associazioni, una palazzina con diversi alloggi verrà messa a disposizione di alcuni padri separati che si sono ritrovati senza una casa dove vivere. L’iniziativa è nata per porre un rimedio ad una situazione che si sta facendo sempre più allarmante da un punto di vista sociale e che coinvolge generalmente i padri di famiglia che, a seguito della separazione, si ritrovano a dover cambiare radicalmente la propria vita.

L’abbandono della casa coniugale comporta la necessità di trovare un nuovo alloggio, sia per vivere sia per continuare ad avere l’opportunità di passare del tempo con i figli; purtroppo, però, sono molti i casi in cui lo stipendio del padre non è sufficiente per pagare sia l’assegno mensile in favore di moglie e figli, sia l’affitto del nuovo alloggio. Non mancano i casi più gravi in cui il padre separato, non trovando ospitalità presso la famiglia d’origine o altri parenti è costretto a vivere da senzatetto.

Leggendo certe notizie viene certamente da chiedersi se, nel risolvere una controversia, si possano evitare epiloghi così spiacevoli da un punto di vista umano che, a mio parere, non vedono vincitori da nessuna delle parti. Il discorso vale anche al di fuori dell'ambito delle separazioni ed è estendibile a tutte quelle situazioni in cui un rapporto sentimentale, di parentela o di amicizia si interrompe, spesso solo per questioni economiche, per lasciar spazio ad aspre e interminabili battaglie giudiziarie. Pensiamo, ad esempio, alle controversie che sorgono fra fratelli per la divisione di un'eredità o a quelle fra i soci di una società, generalmente grandi amici al sorgere del comune progetto imprenditoriale e, successivamente, acerrimi nemici al sorgere di momenti di crisi o anche solo al momento di dividere gli utili.

Ricorrere alla giustizia è sicuramente un sacrosanto diritto di ognuno di noi ogniqualvolta viene leso un nostro diritto e non sono possibili soluzioni alternative. Inoltre, se coniugi, fratelli o amici si trovano a discutere delle loro vicende in un'aula di tribunale, è palese che un tentativo di conciliazione o di trovare un accordo è stato fatto e non ha avuto successo. Tante volte, tuttavia, è necessario chiedersi perché non si sia giunti ad un accordo e, soprattutto, se realmente si sia cercato di trovarlo, magari facendo qualche sacrificio e rinunciando a qualche cosa, o si sia preferito lasciare la decisione al giudice, nella speranza di ottenere qual qualcosa in più a cui, con l'accordo, si sarebbe dovuto rinunciare.

Parlando di accordo, più che a quello che possono raggiungere le parti personalmente che, essendo troppo coinvolte emotivamente e spesso non avendo un'adeguata preparazione giuridica, difficilmente giungono ad una soluzione, mi riferisco all'accordo che possono trovare gli avvocati delle parti, prima di instaurare la causa dinnanzi al tribunale. Generalmente, infatti,  prima dell'inizio del processo o, altrimenti, alla prima udienza, spesso sotto espresso invito del giudice, gli avvocati hanno modo di discutere della controversia e di ipotizzare una soluzione alternativa al giudizio. Oltre ad analizzare la situazione da un punto di vista giuridico e senza coinvolgimenti personali, i difensori riescono anche a fare una stima dei costi e dei tempi dell'eventuale processo, offrendo, così, concreti parametri per consentire alla parte di valutare se imbattersi nel contenzioso o transigere la lite.

Tuttavia, l'ultima parola spetta sempre al cliente che spesso, più che dalla ragione, è mosso dalle emozione, dall'orgoglio e dal rancore e la sola parola "accordo" lo fa imbestialire. Tutti gli sforzi conciliativi dell'avvocato soccombono quindi alla famosa frase  "Io non voglio un accordo, lo voglio rovinare quel farabutto!".

Così incominciano le cause, spesso lunghissime e costose, a volte anche più costose della stessa posta in gioco, sia in termini monetari che per quanto riguarda il risvolto umano. Non giova di certo ad una famiglia, figli in primis, che il padre si riduca a dormire in un’automobile, come non giova a dei fratelli che parte dell’eredita a loro destinata si perda in spese giudiziarie.

L’eventuale vantaggio economico, non sempre assicurato, che si può raggiungere con una sentenza favorevole, nei casi in cui ci sono in gioco rapporti affettivi, a mio parere deve essere bilanciato con i risvolti negativi che possono subire tali rapporti.

Tenendo quindi in considerazioni i costi, i tempi, lo stress e il possibile esito del processo, sia da un punto di vista puramente economico che da un punto di vista umano, sarebbe opportuno valutare, in modo razionale, se realmente ci conviene imbatterci in una battaglia giudiziaria oppure no.

Ricorrere alla giustizia, infatti, non deve essere uno strumento di ripicca per dar sfogo ai cattivi sentimenti nei confronti di un’altra persona, ma un mezzo per far valere un nostro diritto, che spesso trova soddisfazione anche con quella che nel gergo giuridico viene chiamata “risoluzione bonaria della lite. Cosicché la separazione non precluda la possibilità di una nuova apertura alla vita.

Alessandro Bonfanti (2010)





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