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Si parla spesso di sacro senza sapere di cosa si stia davvero argomentando. A questo proposito ho chiesto aiuto a Stefano Gonnella ricercatore di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia II (Arezzo) dell’Università degli Studi di Siena. È una persona con la quale è davvero piacevole chiacchierare anche di tematiche così impegnative: ci ha regalato una lezione sul sacro fuori dall’aula....



D. Inizierei col chiederti: “Che cos’è il sacro?”


R. Il problema del sacro è complesso e sterminato, ci si sono confrontati generazioni di grandi, però piuttosto che racchiuderlo in una definizione, in accordo col mio percorso fenomenologico, possiamo cercare di accostarci al sacro tentando di mettere a fuoco un aspetto fondamentale della condizione umana


D. Cosa significa occuparsi del sacro?


R. Significa cercare di comprendere alcune possibili risposte alle domande elementari che da sempre accompagnano la nostra vicenda umana sulla terra. Il dolore, la sofferenza, la malattia, la morte, hanno un senso? E soprattutto possono avere un rimedio? È possibile combattere il male? Un primo elemento da prendere in considerazione accostandoci al sacro è proprio questa ricerca di un senso, la ricerca di un senso che accompagna un bisogno di salvezza, di sicurezza. È la ricerca di una tutela di una garanzia contro la nostra impermanenza, impermanenza che segna le nostre vite. Tralasciando ogni riferimento alle divinità, ad un Dio, alle figure potenti, potremmo partire per un percorso di avvicinamento definendo un connotato ricorrente del sacro: esso indica qualcosa che è separato. Un’idea che troviamo nei vari termini in cui si articola tradizionalmente la nozione di “sacro” e che riecheggia, ad esempio, nell'etimologia dell'ebraico qadosh, nel latino sanctus e nel campo semantico di tabù, tutti termini che indicano essenzialmente qualcosa che è “separato”, “in disparte”, ”distinto”.


D. Ma quali sono in concreto i tuoi studi?


R. Sono andare verso testimonianze, oggetti, opere, edifici in cui secondo la cultura che li ha prodotti è presente questa sacralità. Questa idea di separazione la troviamo nell’architettura sacra, nel modo di strutturare uno spazio. Quando ci rivolgiamo allo spazio del sacro abbiamo a che fare con uno spazio diverso dallo spazio comune quotidiano


D. Che spazio è?


R. È uno spazio separato, un luogo speciale


D. In che modo si configura?


R. L’idea più familiare che abbiamo è quella del tempio che etimologicamente significa “l’azione umana che delimita una porzione di territorio” un gesto che esclude una zona. C’è una bella definizione di Marco Maria Olivetti (filosofo della religione scomparso prematuramente nel 2006) in un bellissimo testo Il tempio come simbolo cosmico dove dice che la recinzione in cui consiste il temenos, (tèmenos: “porzione di terreno”, “recinto”, “terreno sacro”, “santuario”, derivante dal verbo temnèin: “tagliare”, “recidere”, “suddividere”, “separare”) da cui deriva il tempio (dal latino templum: “campo in cui si formulavano presagi e vaticini”, “circuito”), è il simbolo di un atto strutturante cosmopoietico che focalizza nello stesso momento in cui delimita opponendo il fanum (il tempio) al profanum (lo spazio che sta di fronte al tempio)


D. Quindi nel linguaggio comune il profano è chi sta fuori dal tempio?


R. Sì, noi siamo profani da questo punto di vista. Siamo fuori dal sacro


D. Spiegaci cosa significa “il tempio è il simbolo di un atto strutturante cosmopoietico che focalizza nello stesso momento in cui delimita, opponendo il fanum (il tempio) al profanum (lo spazio che sta di fronte al tempio)”


R. Atto cosmopoietico significa la creazione di un cosmo separato dal resto. Il tempio nella sua forma tipica è un luogo chiuso e separato dal resto. Pensiamo alle culture nomadi che non costruiscono templi, esse occupano, ad esempio gli aborigeni dell’Australia, il territorio con rituali. Ripropongono l’atto con cui gli esseri potenti, le divinità, avevano fondato il mondo. Compiono un atto cosmopoietico. Farlo su territori sconosciuti è una consacrazione: io organizzo uno spazio ripetendo l’opera esemplare degli dei. Le popolazioni nomadi piantano un palo sacro. Il tempio è contemporaneamente simbolo del cosmo come universo e cosmo come ordine e armonia


D. Quando organizzo uno spazio sacro che cosa escludo?


R. Escludo tutto il resto che è caos, tutto ciò che è minaccia


D. Questo bisogno di ordine è il bisogno di tenere sotto controllo qualcosa?


R. Infatti creando uno spazio sacro io lascio fuori tutto ciò che minaccia


D. Per trovare una sicurezza interiore?


R. Non solo interiore anche esteriore, da tutto ciò che è negativo dell’esistenza. Da tutto ciò che ci invade


D. Che cosa posso fare per tenere a bada il negativo, la morte, la corruzione che ci invade?


R. L’edificazione del tempio è un modo per sottrarci all’angoscia, è un modo per tenere a bada il caos. Ciò lo troviamo in gesti come quello dei nomadi che piantano un palo, questo non è un tempio ma ha la stessa funzione


D. Allora come ci si avvicina al sacro dal punto di vista fenomenologico?


R. Precisiamo che la fenomenologia non dà modelli universalmente applicabili, non definisce il sacro perché esso cambia a seconda della cultura di appartenenza. La fenomenologia si occupa anche dei segni ecco perché nasce il bisogno di andare a vedere le testimonianze reali. La fenomenologia studia come diamo senso al sacro uscendo dalle nostre categorie individuali, dalla nostra particolare tradizione, dalla nostra specifica cultura


D. Per dirla in modo più semplice possibile si può affermare che la fenomenologia studia il sacro uscendo dal punto di vista strettamente individuale?


R. Sì. Queste tracce si possono rinvenire anche nelle culture lontane. Io mi sono interessato seguendo Domenico Antonino Conci filosofo, antropologo, fenomenologo di cui io ho avuto il privilegio di essere prima allievo e poi assistente, nello studio dei segni. Una fenomenologia dei segni culturali significa andare a descrivere quali sono le strutture di senso che hanno portato a comporre una particolare immagine o un particolare edificio. Noi abbiamo un’idea dello spazio in relazione alla prospettiva, che il tempo sia quello storico, che la logica sia quella di Aristotele…


D. E invece?


R. Non è solo questo, ci sono altri spazi e altri tempi. Ma dove? Andiamo a vedere le opere. Queste testimonianze si possono analizzare. Pensiamo ai graffiti sulle caverne paleolitiche. Posso osservarli pensando che siano dei poveri selvaggi che non hanno scoperto le leggi della prospettiva, o posso pormi la domanda che questi abbiano un’altra concezione


D. Lo stanno osservando da un altro punto di vista?


R Se io non ho come solo punto di osservazione quello occidentale come depositario del tempo e dello spazio, posso mettere a confronto la mia dimensione con quella degli altri. Attraverso questi studi è emerso che non esiste una coscienza personale, abbiamo a che fare con delle culture in cui c’è una coscienza ma non c’è l’io. Ciò ci riporta verso il sacro, affinché il sacro possa essere ciò che esso garantisce in maniera assoluta, non può essere concepito come una nostra invenzione. Deve essere qualcosa che si rivela autonomamente. Questa manifestazione potente che salva il mondo è sacra, lo studio fenomenologico scopre che la sacralità è caratterizzata dalla potenza. Questa potenza è tale se io sono in postura rivelativa


D. Cioè se io sono lì pronta ad accogliere?


R. Sì, è una condizione a cui non ho da opporre, questa condizione elementare della coscienza sembra sia il requisito essenziale affinché si possa dare un sacro. Io lo posso concepire solo se sono in questa postura rivelativa. Questo è un percorso all’interno della coscienza religiosa, si arriva al sacro passando dalle testimonianze materiali. È un percorso che parte dall’oggetto concreto e va verso l’interiore. Anche con le icone abbiamo a che a fare con degli spazi costruiti non con la prospettiva rinascimentale, con quella che Pavel Florenskij definiva prospettiva rovesciata


D. Perché rovesciata?


R. Perché invece di andare noi all’interno del quadro come se esso fosse una finestra a cui noi ci affacciamo e vediamo in profondità, come del resto Leon Battista Alberti concepiva la prospettiva, queste immagini sembrano proiettarsi verso di noi


D. Come se noi non potessimo fare il percorso inverso di andare dentro?


R. No, perché è lei che si presenta a noi


Per conoscere il progetto del dott. Stefano Gonnella visitate www.hieros.it


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