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L’uomo ed il nulla

Un racconto a puntate di Antonio Stasi

In questo numero la I parte

 

L’uomo dalle lunghe brache forse era stato così apostrofato a causa del perenne aspetto trasandato. Robusto, di media età, lineamenti nella norma; non v’era molto da aggiungere del suo apparire. Non ha importanza chi fosse, nel modo canonico nel quale ci si identifica. Lui di certo se l’era chiesto da sempre, ma con altro intendimento, non lo riguardava che si mostrasse alto o basso, magro o grasso, se questo fosse rimasto un aspetto confinato nel tempo.

Non aveva valore neanche il fatto che di tanto in tanto si pettinava e che la natura lo avesse forgiato belloccio. Il non avere interesse per l’apparire assume in questo caso un significato relativo. Anch’egli a volte attribuiva valore per le cose terrene come le auto, le donne, e non si mostrava proprio sicuro della possibilità che quest’ultime carpissero il suo “Io” in modo telepatico.

Doveva pettinarsi ed a volte persino rasarsi; che barba!

Ma cosa mai gli frullava per la mente! Chi cavolo si credeva d’essere quel bell’imbusto che non perdeva occasione per scontrarsi con chiunque provasse a “dire la sua” , con fare pacato, normale, comune.

Non valgo niente se non sono eterno” Questo slogan doveva appartenergli. Ma a pensarci bene l’aveva pure detto, ed aveva aggiunto tant’altro in varie occasioni.

Quella volta di tanti anni fa, al chiaror di luna, le sue esternazioni sembravano quasi possibili, di quel reale attribuibile alle favole, nell’interpretazione dei bambini.

Cosa mai abbia voluto significare “essere qualcosa o niente in funzione dell’eterno”? Sarebbe meglio rinchiuderlo! Ebbene si, perché vive ancora e circola tra noi. Poveri gli esseri insidiati dal male del suo dire; aggravatosi nel corso degli anni. Mantiene anche un atteggiamento benevolo, a volte accattivante. Si, proprio a volte, perché di solito verrebbe voglia d’ammazzarlo.

Ma come osa dubitare dell’esistenza di Dio o che questi sia buono ed eterno? È vero nessuno dei presenti seppe confutarlo quando proferì della sua visione della vita; erano tesi oggettive e neanche dissociabili da una veduta metafisica, nella quale pochi arditi osano infilare il proprio senno.

Ma pure nella difficoltà di esplorare il suo ego, e cosa ancora più ardua, accennarvi il senso su questo foglio, è bene provarci, se non altro per fornire una visione più eterogenea del bene e del male.

 

Eccomi, sono Adamo. Sono stato effettivamente etichettato come “l’uomo dalle lunghe braghe” ma nessuno ha avuto il coraggio di dirmelo in faccia. Racconto di un incontro particolare che mi ha turbato e modificato in alcune convinzioni esistenziali.

Sarà stata quella sera di maggio, mentre la mente frugava tra le stelle, scorsi un foglietto che quasi indiscreto scivolò dalla giacca del vecchio. Non usai la cortesia di avvertirlo. Fui vinto dalla voglia di assaporarne il contenuto, che in modo istintivo ne percepivo l’odore.

Eccolo:

 

Ombre

Vorrei dire col senno

e non con scarni suoni

d’ombre che furono ivi siam or noi presenti.

Nella mente del buio della notte,

quando logica non appar giammai;

magici sprazzi d’infinite luci

vagheggiano ove pensier li scorge.

 

E fluttua, fluttua anch’esso come le ombre

D’erranti antenati microbi e uomini,

d’occhi gentili o tristi

di mangiati e mangiatori.

 

Qual senno v’era dove or lor sono?

Ombre che s’intersecano e volan via;

ombre che si credevano presenti;

ombre che appaiano alla mente

di questo errante viaggiatore

 

Che mai voleva significare “dire col senno e non scarni suoni”, come se le parole non fossero sufficienti per spiegare qualcosa! Ma com’è possibile comunicare col senno; in quale modo gli altri percepirebbero se non ci servissimo di un codice?

È vero, sembra quasi che col piccone si voglia aggiustare un orologio da polso.

Questa è l’impressione che si ha nell’interpretare con il comune mezzo semantico frasi come:

Nella mente del buio della notte,

quando logica non appar giammai;

magici sprazzi d’infinite luci

vagheggiano ove pensier li scorge”.

O ci si limita a sorvolare, scappare via; al massimo liquidare l’autore come di un inetto, oppure immettersi anima e corpo in una sorta di fluido sensoriale e lasciarsi trasportare senza una meta.

Chi sono “i mangiati , chi i mangiatori” su questo posto dove l’infame mistero ci ha adagiato o sbattuto, e beffardo sembra seguirci, burlandosi di noi, della nostra ingenuità, ignoranza, impotenza.

È enorme il distacco tra un microbo ed un uomo alla luce del comune pensare, eppure egli, nella sua “concentrata semantica”, sembra attribuirne la stessa importanza, l’identica finalità, il medesimo destino.

In quale modo mai la Trascendenza, potrebbe preoccuparsi d’un microbo, di un’anonima pianta vissuta chissà quando e dove. tuttavia, avendoci riflettuto, l’uomo è la stessa cosa e purtroppo per chi potrà soffrirne. Ma non per questo dovrà temere un destino più angusto, nefasto.

Lo stesso patetico sconforto traspare dagli occhi di un cane, di un bambino, di un malvagio a riposo quando, appena sentori della loro impotenza dinnanzi al mondo, s’adagiano alla clemenza della corte divina.

Ebbene si, fui molto turbato dalle frasi di quella, non saprei definirla, una poesia o qualcosa del genere. Doveva essere il mio interlocutore; ma per il momento non volevo scoprirmi. Bisognava che entrassi nel suo mondo in punta di piedi. Avevo la netta impressione che se non mi fossi adoperato in tale modo, sarebbe scappato, avrebbe travisato le sue idee.

Non l’avevo mai fatto, ma l’idea di trafugargli temporaneamente eventuali sue opere, scritti vari, mi entusiasmava e nel contempo mi turbava.

La strana sensazione che mi prendeva con un gozzo alla gola, era quella che può provare un cercatore d’oro, quando ormai stremato e deluso dei tanti anni d’infruttuosa ricerca del prezioso metallo, d’improvviso ne trova una pepita, ma non piccola, ma enorme.

Seppi della sua dimora e mi intrattenni diversi giorni nei pressi di essa. Una villetta in campagna, niente di particolare. Lo vidi spesso gironzolare in giardino a svolgere i ruoli di giardiniere, muratore e cose simili. A dire il vero, questa cosa mi turbò non poco. Avevo creduto che una simile mente dovesse rimanere sempre a studiare, a meditare. Sembrava che perdesse del tempo prezioso dedicandosi a quelle attività di routine. Ma poi ne fui certo, doveva esserci una logica anche in questo.

Comunque, rubargli qualcosa sembrava un giorno da ragazzi. Infatti, non chiudeva mai le porte di casa. Sembrava che esistessero solo per contenere le intemperie.

Un pomeriggio, vedendolo allontanare dirigendosi verso il vicino paese, decisi di fare una visita in quella casa così allettante per i miei desideri.

Mobili di discreto valore erano sparsi qua e la, senza un ordine prestabilito. Oggetti d’ogni genere posati a caso sopra di essi. Libri, tanti, ingialliti dal fumo del camino e da un tempo beffardo trascorso anche in quella strana dimora, piena di mistero e di solitudine.

Non volevo trafugargli niente di cui poteva accorgersene. Desideravo solo carpirne il contenuto e poi rimetterlo a posto. Temendo un suo ritorno, presi a caso uno di quei brogliacci incastrati fra i tomi, lo infilai nella casacca, diedi un veloce sguardo ai titoli dei libri ed agli autori, e quasi come un professionista, guadagnai l’uscita e mi allontanai.

Arrivato a casa, volli gustarmi la sorpresa. Così nonostante la grande curiosità, non lessi subito il manoscritto, anzi, mi preparai una tisana rilassante e mi abbandonai sulla comoda poltrona a godere a piccoli sorsi del contenuto della bevanda e del brogliaccio.

Gustai cosi quei momenti.

 Soffio di vita

 

Da una vaga idea dell'uomo

il verbo generò l'animale.

Esso volle tendere al padre.

Un'arcaica specie rinnegò il passato e protese per ardito futuro.

Barcamenarono in tanti

nei secoli bui

per capir di prostrarsi

supine al cospetto del conscio.

Poi, dall'eterno, inconsapevol

vivere, un misterioso evento generò il senso del me.

Chiesi alla gradita illusione e scorsi immanenza nel fondo dell'immagine nostra

che gaia esultava.

Rimasi sbigottito. Avrei voluto sorseggiarla, ma mi scese di botto in gola nella mente.

Non capivo come si potesse partorire qualcosa del genere. Chi era per lui il Verbo e come poteva supporre che fosse limitato. Infatti se cosi non fosse stato, non avrebbe avuto “una vaga idea dell’uomo”, avrebbe saputo con certezza cosa creare e perché. Ancora, come mai doveva attraversare una lungaggine di quel genere, ossia, essere animale; presupponendo per esso una non consapevolezza di se stesso.

Poi che senso avrebbe generare qualcosa o qualcuno che voglia tendere a se stesso, per che cosa, per emularlo forse, e come, quando, perché; in quale millennio?

No, troppo incongruenze, gli eventi non possono essere stati questi, c’è qualcos’altro, oppure conosco poco del mio misterioso amico.

Era veramente inconsapevole il vivere dei miliardi di esseri che precedettero l’uomo?

C’è un’apparente contraddizione tra la prima poesia e questa a proposito del valore da attribuire a qual si voglia entità biologica. Infatti nella prima sembrava dovessimo condividerne il destino persino con i protozoi, in quest’ultima sembra, invece, che siano solo serviti per arrivare alla propria coscienza di se, di noi.

Se cosi fosse, verso quale coscienza staremmo correndo per passarne il testimone?

Come possono coesistere immanenza e trascendenza. Come mai allora egli presuppone un idea di qualcosa o qualcuno e poi il tutto sia, come dire, un frutto dell’immanenza?

Ma veramente c’è da esultare qualora ci si convinca che la nostra esistenza sia un mero frutto dell’immanente?

Per quanto riesca ad intuire, l’immanente sarebbe una misteriosa capacità dell’energia, della materia ad organizzarsi, non so per quale fine; ma arrivare al senso dell’Io, alla coscienza può sembrare gia una buona meta. Ma quale pietà vi può essere per quell’Io che conscio di se stesso, della propria miseria, non fiuti una sorte benevole del suo

futuro post vitae?

Ci deve essere molto di più!

 Quella sera, pensando e ripensando al significato di quelle parole mi addormentai sul rosso sofà, il tepore della stanza alimentato da un generoso camino, aveva contribuito al rilassamento. Dicono che i sogni sopragiunti ai sonni profondi non si ricordino. Sarà vero in parte, o a causa del brusco risveglio causato dall’abbaiare del cane, che mi permise di ricordare alcuni tratti del sogno.

Tutti sanno quanto sia difficoltoso rendere indelebili alcuni concetti, scene varie che ci capita di sognare. Il più delle volte svaniscono miseramente lasciandoci con un amaro in bocca; come a dire, torna nel tuo comune vivere, nella cosiddetta realtà fatta di tutto e di niente.

Quella volta non mi lasciai sopraffare dalla pigrizia, presi una penna un pezzo di carta e mi appuntai quei concetti sognati sotto una forma prosaica.

 

 

Speranza

 

Meta irreale dell’umano senno!

Gloria perenne dei rancor sopiti!

D’arte, d’amore e di dolcezza langui!

Taci, ti prego, non soffocar il mio cuor.

 

Senso istintivo è chiederti perdono;

li odo invocare, t’hanno patito.

Madre dell’amor, saper tu devi

L’arduo dovere che per natur detieni.

 

Gioie mancate, vanità perduta, sguardi lascivi

Dove veder non posso, ombre osservate,

malinconie languite, in te dover pongono arpiglio.

 

Seme di vita, amante mia diletta, cresci sovrana

Come tu sai far.

Odi l’amica fede, senti l’amor, palpa il perdono.

Ora dimmi, cercarli posso

In questa selvaggia vita di apparente mal?

 

 Di sicuro non mi metterò a fare la parafrasi, anche perché non ne sarei capace e sarebbe comunque soggettiva. In una composizione del genere penso vi possono essere varie interpretazioni. Chissà Freud come avrebbe interpretato una personalità che partorisce un sogno del genere. Comunque io non ci capisco molto.

 È probabile che i pensieri abbastanza contorti siano una sorta di coktail tra le mie riflessioni di ieri, a sua volta in funzione del contenuto delle prose dell’amico.

 Quella luminosa mattina di maggio, invitava ad una passeggiata tra i fiori; le rose trastullavano col loro intenso profumo gli ingenui uccelletti i quali, inconsci e divertiti, saltellavano da un ramo all’altro in cerca di nuovi amori.

La campagna era addobbata a festa. Le fronde degli alberi, adorne di giovani foglie, sembravano sventagliare sull’illusione umana un tiepido diversivo.

Deve essere questo il modo col quale la natura c’inebria e ci limita.

La sofferenza, l’evidente caducità della vita, i pensieri raramente profondi, lasciano il posto all’immediato gioire.

Basta una giornata di sole, una bella donna che ci sorride, un invitante pranzetto e saremmo capaci di vendere l’anima, l’eternità pur di appagarci di simili desideri.

L’uomo è così frivolo da perdere la sua sola opportunità certa, la vita terrena, pur di non raccogliere tutte le proprie forze e guardare un poco oltre l’orizzonte.

Ma torniamo all’inconsapevole amico. Avevo l’impressione, perseguendo a conoscerlo, che fosse reo di grande presunzione. Qualcosa mi diceva che le sue strane dicerie, corressero il rischio d’impantanarsi in qualcosa di miseramente terreno.

Nonostante ciò, continuavo a sperare che fosse una piccola ancora di salvezza, nel grande oceano fatto di “agghiacciante solitudine”, nel quale vagavo alla deriva, oramai rassegnato.

Erano passati alcuni giorni da quando avevo sottratto il foglio incastrato tra i libri del vecchio. Nel frattempo avevo meditato sovente sulle sue “elucubrazioni prosaiche”.

Era giunto il momento di riportare indietro quel foglietto che era stato così prezioso per le mie meditazioni. Volevo anche cercare nella sua dimora qualcos’altro che potesse nutrire uno spirito alla deriva. Sono pochi, del resto, le possibilità di appagare la propria inquietudine, quando si nasce col fine ultimo di dare un senso più profondo alla propria esistenza.

Rincorrendo questo miraggio si naviga sull’ordine delle cose. Ogni attrattiva della vita di tutti i giorni assume un’importanza marginale, a volte superflua, ottimisticamente scarna. Questa visione deve risultare similare tra tutti coloro che vivono la propria esistenza con lo stesso scopo.

Per tale ragione si sente il bisogno di confutare ad oltranza le intime elucubrazioni, per questo motivo ci si sente attratti da chi, uomo o donna che sia, possa alimentare questo intrinseco desiderio. A volte penso che c’è qualcosa di errato quando ci si identifica come uomo, donna, omosessuale.

Non mi accoltellate se perseguo questa idea che per me è quasi una verità evidente. D’altronde, chi si sente di marcare la linea di separazione tra amore ed amicizia. Per questo sarebbe opportuno identificarsi come essere umano e basta. Il nostro corpo è solo un esile mezzo d’indagine al servizio di qualcosa di molto più grande, che se non esistesse farebbe di noi un non senso.

Le ultime luci d’un dì di primavera inoltrata schiarivano quella misteriosa casa che avvolgeva con fare indiscreto il mio ignoto amico. Ero giunto in prossimità della dimora senza un’idea certa. Non potevo sperare che si allontanasse come la volta precedente. Non avevo speranza d’intrufolarmi furtivo per riporre il foglietto nei libri, tanto meno di appropriarmi di qualcos’altro che potesse dare spunto alle mie elucubrazioni.

Guardai la villetta scivolare nelle nere fauci della notte. Di lì ad un’ora, l’unica luce che colpiva le mie pupille era sparsa da una piccola finestra che guardava in una valle circostante. Ho creduto che la vista del territorio antistante tale punto d’osservazione abbia potuto incidere sulla visione delle cose dell’anziano uomo. Non poteva essere sfuggito al mio amico il trascorrere del tempo, scandito dal cambio delle stagioni, dal giorno e la notte, dalla vita e la morte degli esseri e delle cose.

Rimasi con lo sguardo proiettato verso quella dimora e quasi inconscio, spingevo la mente al di la delle mura, oltre il reale. Lasciandomi soggiogare dal tepore di quella particolare sera, avvolta d’una coltre di stelle indiscrete, rimasi seduto su un masso tra sonno ed oblio.

Credevo di conoscere quel posto da prima che costruissero quella casa, o come sarà dopo che verrà demolita. Intravedevo della gente che nasceva, soffriva, si divertiva, svaniva. Altre persone del passato o del futuro, ormai non sapevo più che collocazione temporale avessero. Non aveva, del resto nessuna importanza. Passato e futuro erano come un tutt’uno sposati ad un inesistente presente. Le stelle sembravano divertirsi della mia vacillante sensazione.

Cosa avrei voluto che accadesse; non è nell’istinto, ne nella ragione, tanto meno potevo cercare il da farsi in un comportamento ragionato. Del resto, cosa volevo da quella sorta di speranza celata da quattro mura? Era evidente che l’unica cosa che cercassi non mi poteva pervenire da niente, neanche dal più savio degli umani. Poi cosa mai sarà un savio? Uno che ha pensato troppo forse? Se si, in quale direzione? Non potevo ne dovevo continuare ad illudermi! Rimuginando tra me e me, mi tornò alla mente un grande del pensiero filosofico, un certo Socrate, il quale tentava, tra l’altro, di dimostrare che il sapere è dentro di noi. La sola cosa che necessita fare è tirarlo fuori. Per fare questo si può agire in due modi, il primo,

è stato detto, è pensare, il secondo è dialogare. Quest’ultimo metodo è probabile possa fornire risultati migliori. Ma a prescindere da questi, può nutrire con un piatto di “pari vedute”, il nostro appetito.

Ed eccomi qua; oramai non c’è più passato. Il presente è nell’attimo in cui registro il mio da farsi. Cosa faccio, vado via oppure, oppure cosa, desidero per caso andare lì a bussare a quella porta. Cosa andrò a dire; come mi accoglierebbe se lo facessi?

Ecco, è sorta la luna all’orizzonte. Sembra essere uscita da un bagno di sangue. Pare voglia rischiarare il cielo, le anime ribelli con la sua fioca luce. Le stelle ancora predominano su di essa. Immobili, in un coro ancestrale mi cantano l’inno di fede. Resto immobile; sento il fremito che mi pervade; mi sale lungo la schiena; scivola su e sembra che blocchi la mia ratio. Ecco, un uccello, è un gufo, saetta sicuro nelle tenebre; attraversa il piatto lunare. Sembra presagire qualcosa. Neanche i soliti grilli stasera mi fanno compagnia. Un silenzio irreale adorna l’attimo infinito, ed il tutto e il nulla s’amalgamano in un’identica realtà.

Mi avvicino piano, furtivo verso quella finestrella fiocamente illuminata.

Di tanto in tanto la luce diviene ancora più fievole a causa di una sagoma che transita d’innanzi alla sorgente. Deve essere il mio amico che passeggia dentro la stanza. È come se fosse una bestia che contro la sua volontà viene rinchiusa in una gabbia, il quale andirivieni è scandito solo dalla sua rabbia interiore, dalla fame, dalla sete.

Ma forse all’animale rimane il sogno di andare oltre le sbarre. Può intuire cosa ci sia lì dove gli è precluso; a meno che non vi è nato dentro; proprio come noi, schiavi del pensiero, rei d’esistere. Confinati in un anfratto che non ci da scampo. Ci limita anche nel sognare.

Ecco, inciampo, per la miseria, devo essermi graffiato saranno dei rovi o delle rose. Ricordo che l’uscio è a destra della finestrella, ma non lo vedo ancora. Ah se potessi avere un bagliore. Se avesse messo un campanello sul cancello; un nome. Ci sono. Intravedo appena la scura sagoma dell’uscio. Che faccio, busso e manifesto la mia presenza, lascio trasparire l’inquietudine che ormai mi domina, o scappo via. Solo un esile ostacolo si frappone tra me e l’uomo artefice di speranza, di mistero, chissà, forse di rivelazioni. Cosa gli dirò? Chi sono, cosa penso. Potrò ridicolizzarmi a tal punto da svelare ad uno sconosciuto le mie paure, le intime incertezze. E se si rivelasse un burbero, incapace di un dialogo pacato. Se quelle cose che ho letto di lui le avesse scritte tanto tempo fa e magari adesso è un’altra persona. Se i tanti anni che avrà avessero infine inciso sulla mente. Se non fosse più in grado da vecchio di dominare il pesante fardello dei propri pensieri. Mi sento comico come un innamorato che in altri momenti avrebbe avuto certezza di essere ricambiato, perché si sogna che l’altra nutra parimenti emozioni. Ma si sa che poi non è così, almeno in parte. Al massimo una donna che non ricambia l’affetto di un uomo innamorato di lei, è intimamente lusingata. Si può sperare che possa allontanare l’innamorato con fare gentile, cortese. Ma è così contro natura manifestare sentimenti inusuali verso un vecchio, solo perché si sente dentro che possa rivelare qualcosa di profondo per l’intima sete di conoscenza che mi pervade.

Si perché la sua età è congelata sugli ottanta anni. Anche se ne avesse di più non me ne accorgerei.

Cosa conosco di lui, della sua vita; perché sento che sappia qualcosa la quale conoscenza può rendermi contento? Si è vero, la mia sensazione ha un movente stravagante. Mi sembra che una persona che convive con un modo di essere, con qualcosa o qualcuno, col trascorrere degli anni, la propria espressione facciale tenda ad amalgamarsi con ciò che è stato compagno nel tempo.

Da bambino, per esempio, ogni mattino ed ogni sera transitava davanti alla mia casa un carretto trainato scocciatamene da una “mula”. Sul carro un certo Michele che in modo abitudinario completava la figura d’insieme.

Per me, in seguito ai tanti anni di passaggio dello stesso carro, l’identica mula, il medesimo vecchio, la stessa ora, non vi era più distinzione tra il volto dell’animale e quello dell’uomo. È come se il tempo avesse tolto qualcosa a qualcuno e l’avesse impresso all’altro.

Allo stesso modo ritengo che un appassionato di filosofia pura, non può avere uno sguardo arcigno, spezzante, da furbastro, per esempio. La stessa predisposizione mimica tenderà ad accentuarsi nel corso degli anni.

Folle vero? Eppure , anche se non so fornire una spiegazione logica, ne sono abbastanza convinto.

Oddio, cosa ho fatto, pensando alla mula mi sono distratto ed incautamente ho bussato alla porta. Avrà sentito, è il caso che vada via. No, non c’è più il tempo di riflettere, ormai è qua, sento che apre, mi si para di fronte.

Ha in mano una lucerna accesa, la solleva appena perché veda il mio viso e senza aggiungere altro mi invita ad entrare. È un vecchio come tanti, magro, gli occhi grandi ed incavati in una pelle raggrinzita e avida d’espressioni. I lunghi capelli bianchi e radi coprono gli orecchi e il longilineo collo. Addosso l’essenziale; una maglia a girocollo verdastra e sgualcita; un pantalone scuro forse di jeans con una piccola toppa grigia al ginocchio. La stanza d’ingresso è la stessa di quando entrai furtivamente, ma la ricordavo più sobria, più disordinata. Le ragnatele sono rade; ne intravedo un paio agli angoli della vecchia libreria di castano scuro di fronte al camino acceso, nonostante il mite clima. Il soffitto di legno anch’esso, contribuisce ad oscurare l’ambiente, rischiarato solo dalla fiamma del camino. Mi fa segno d’ entrare e sedermi su una sobria panca di sbieco ad un tavolino di vimini giallo scuro con sopra un accenno di centrotavola brizzolato, su un vasetto di terracotta con una pianta grassa tonda. Non dico niente, raccolgo l’invito ringraziando. Egli si accomoda di fronte, dalla parte opposta del piccolo tavolo; neanche il tempo di poggiarci ed esclamo: <Mi deve scusare, ma sento che in lei vi è qualcosa che amerei conoscere. Non mi chieda di risponderle con una ragione logica, ne mi derida la prego.>

Il vecchio, pur volgendo lo sguardo verso la fiamma scoppiettante, pare fissarmi col pensiero. Sembra si aspettasse una tale presentazione. Con fare quieto si alza va verso lo sgangherato camino, prende l’unica bottiglia da una mensola, questa, piena di libri poggiati di piatto e confusi con stropicciati quaderni, sorregge anche due soli bicchieri che, con reminiscente ospitalità, li poggia sul tavolo riempiendoli fino all’orlo. Il nero liquido che travasa dalla strana bottiglia con collo contorto, sul quale è ricavato un orlo dal quale foro vi passa con facilità un grosso dito, odora di vino e lo è. Sembra quel denso primitivo che ho conosciuto da bambino, il quale, dondolandolo nel bicchiere, ne lasciava sulle pareti un concentrato rossore.

Non ho il coraggio di rifiutare questa forzata offerta, ne di confessargli che raramente bevo alcolici e tanto meno in quelle occasioni, nel corso delle quali gradirei mantenere il massimo della lucidità.

Afferra il grosso calice trasparente lasciandone scivolare il sottile piede di cristallo tra le lunghe dita e il palmo della mano. Il garbo con cui ha compiuto tale gesto denota un’arcaica abitudine di raffinato galateo, da me conosciuto solo attraverso le scene di films girati in ambienti come la Reggia di Caserta.

Con un accennato sorriso, accompagnato dal gesto della mano con la quale sorregge il bicchiere, mi invita a fare altrettanto; dopo di che se lo porta alle labbra e ne travasa in se il contenuto.

Mi sembra di vivere una scena rituale dalla quale non posso ne voglio esimermi. Nonostante abbia bevuto in diverse occasione del vino, non sono mai riuscito ad abituarmi completamente al suo sapore, ne a controllarne l’effetto sui miei sgangherati neuroni. Così afferrato sgraziatamente il calice, ne bevo di botto il “nettare degli Dei” come se fosse stato quel liquido radio riflettente bianco, usato in radiologia per rendere visibili alcuni organi ai raggi x.

Sono ancora io a prendere la parola e, senza avere il coraggio di fare commenti dello straziante sapore del vino, gli chiedo senza preamboli: <Cosa ne pensa della vita, dell’esistenza, vi è una qualche speranza che la “consapevolezza di noi” possa sopravvivere in qualche forma alla nostra alienazione terrena?>

Con voce stentata ma chiara e profonda, in un italiano perfetto esente da inflessioni dialettali, inizia a proferirmi delle varie visioni del mondo, della consapevolezza di se, che i vari grandi del pensiero filosofico hanno espresso nel corso dei secoli.

Dal modo di esprimersi e dalla conoscenza dettagliata della storia della filosofia, deduco che possa conoscerne la letteratura, pertanto gli domando:

< Ma lei che lavoro ha espletato nella sua vita, è italiano?.>

Mi guarda, dividendo lo sguardo tra me e la bottiglia del vino ancora per metà piena e mi dice:

<No, non sono italiano. Sono circa venti anni che risiedo nel vostro Paese.

La mia Nazione di nascita è la Cecoslovacchia, ma sono vissuto sempre negli Stati Uniti, a Philadelphia dove insegnavo filosofia presso L’università>!

Dicendo questo corruga ulteriormente la fronte, alza lo sguardo a mo di riflettere, quasi voglia inventarsi un vissuto che gli è appartenuto tanti anni fa.

Rispetto l’attimo con doveroso silenzio, ed immagino quanto sia duro sopravvivere ai tanti ricordi che coronano un’esistenza. Quando tutto sembra inesorabilmente finito e la consapevolezza della propria età non ti consente di allietarti con promesse future.

Poggia con garbo il bicchiere sul tavolo e trattenendosi il capo con la mano sinistra, mi chiede cosa realmente voglia sapere da lui.

Ormai tranquillo, aiutato dal rilassamento del vino che gia lascia emergere i suoi effetti, gli dico:

< Non mi ero sbagliato sul suo conto. Lei è stato un insegnante di filosofia e avendo scelto tale indirizzo per la sua carriera professionale, non può non averla amata. Eviti di raccontarmi le varie visioni filosofiche, mi dica soltanto, quale sia la sua convinzione. Ormai ha un’età sulla quale non può bleffare. Deve essersi fatta una ragione; è questo che vorrei che mi dicesse>

<E’ vero>! Esclama come se si svegliasse da una lunga abitudine fatta d’incontri sterili, di gente avvezza a bere nella solita fonte, o che al massimo si accontenta e riparte sempre dall’inizio della scala della conoscenza. Gli incontri più appaganti oramai risalivano ad oltre trenta anni prima di quando insegnava negli Stati Uniti. Gli americani hanno una visione più pragmatica della vita. Per loro esistono solo le cose che si possono spiegare, vedere, assaggiare.

Non è sempre così, ma l’eccezione conferma la regola.

<Avrei dovuto capirlo subito dal tuo sguardo che tipo di persona sei. A te posso confidare che tutti i miei studi, le mie riflessioni sono serviti veramente a poco perché possa fornirti un parere per te esauriente>.

Cosi dicendo, si alza e passa in rassegna con lo sguardo gli innumerevoli libri sparsi per la grande sala. Di tanto in tanto, avvicinandosi a qualcuno di essi, lo afferra e lo stringe con rabbia; qualcun altro con affetto. Uno di questi, del quale mi capita di carpirne anche il titolo, lo scaraventa con sdegno nel camino acceso. Era l’Anticristo di Nietzsche .

Come non comprendere la sua disperazione, dato che è anche la mia, accentuata dai tanti anni in più e carente di quella speranza biologica che porta a far sopravvivere ogni essere, facendolo sperare nel domani. Un domani che forse non verrà, ma del quale ne siamo inconsapevoli.

Si riavvicina al piccolo tavolo di vimini, prende la bottiglia, mai persa veramente d’occhio, e ricolma il suo bicchiere, denotando un vistoso tremolio della mano.

Dimenticando il bicchiere sul tavolo e senza neanche assaggiarne il contenuto, si dirige con calma apparente verso l’abbondante poltrona a dondolo posta di fronte all’ampia bocca del caminetto. Si siede lì dandomi le spalle, quasi come se si vergognasse d’un fallimento che è di tutti, ma del quale egli come altri che perseguono l’intento di mantenerne le redini della gnosi, si reputa maggiormente responsabile.

<No, possiamo solo parlare di ogni cosa tu voglia senza ipocrisia, e tu lo sai cosa voglia dire, ma non credo poterti rivelare granché di particolare>.

<Ti ringrazio veramente di cuore della disponibilità che mi offri, te ne sarò sempre riconoscente, e ne approfitterò di certo> Aggiungo io ancora stordito dal pesante vino ingurgitato e da quella strana avventura che mi sta capitando.

<Una cosa te la posso dire> aggiunge quasi volesse confessarsi come un miscredente che ammetta d’improvviso di credere agli spiriti.

<Tanti anni fa ho subito un gravissimo incidente. Sono stato ricoverato in coma e di quella tragica esperienza ricordo delle cose strabilianti>

<Vuoi dire che hai dei ricordi di quando eri nelle condizioni di non poter pensare>?

<Così si crede normalmente, ma io pensavo e come>. <Mi sembrava che il tempo non esistesse più, come se le tante cose fatte nel corso della mia vita fossero racchiuse in un unico punto>. <Non so come spiegartelo esattamente, ma è come se avessi raggiunto il dono che normalmente si crede abbia Dio, ossia trovarsi in ogni luogo o in ogni circostanza contemporaneamente>.

Se queste rivelazioni le avessi apprese da chicchessia, non vi avrei dato peso, ma chi le contrappone ad una vita fatta di studio e di riflessioni, le attribuisco valore eccome. Anzi, trovo eccezionale che ci possa essere una forma d’esistere latente in ogni cosa, in ogni luogo e spiegherò successivamente perché.

Finito di pensare ciò, gli dico:

<Non riesco a comprenderti; deve essere una sensazione che devi necessariamente vivere per renderti conto di cosa sia. Non riesco a confutarti. Scusami, per la fretta di conoscere i tuoi pensieri ho omesso di presentarmi. Mi chiamo Adamo e spero che potremmo darci del tu >.

<Dopo quello che ti ho appena detto, sarebbe un evidente controsenso se mantenessimo un distacco dandoci del Lei. Dammi pure del tu e chiamami Lew>.

I due strani personaggi erano finalmente insieme. L’uno aveva cercato l’altro, ma questi è come se l’aspettasse, o perlomeno sperava d’incontrare qualcuno, alla soglia del trapasso, col quale potesse finalmente sfogarsi.

Diveniva, col trascorrere dei minuti, un evidente connubio tra i due.

In quell’occasione fu più Adamo a prendere l’iniziativa di trovare nuovi argomenti di conversazione. D’altronde ancora in lui vi era una certa enfasi giovanile che lo incitava, nonostante si era abbastanza tranquillizzato e la ricerca dell’Io aveva assunto una dimensione più pacata, ma non rassegnata.

Il giovane pensatore ebbe un’idea. Propose di rivedersi ogni momento possibile insieme e se avessero avuto voglia, avrebbero discusso di qualche argomento.

<Va bene, sono d’accordo, come potrei rifiutare un così allettante invito>

Esclamò Lew, visibilmente commosso.

Ecco quanto fu detto in quell’incontro:

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continua nel prossimo numero


Ecco ciò Antonio Stasi scrive di sé per presentarsi:


Nato nel 1956 A Carosino e ivi cresciuto fino a diciassette anni,  un piccolo paese del tarantino, coniugava con innata motivazione, il lavoro duro nei campi con lo studio…  Tanti anni trascorsi nelle distese di vigne; qui ogni giorno, in solitudine, pensava a quali potessero essere le ragioni profonde dell’esistenza e il senso di ogni cosa …. Ogni possibilità gli è stata d’ausilio affinché rafforzasse le proprie conoscenze in ogni ambito del sapere ….  Ha letto tantissimi libri di filosofia, scienze e di ogni altro argomento solo  apparentemente distante dal fine che si è proposto ….. Ha militato nell’aeronautica militare compiendo sempre con eccellente merito le mansioni affidategli …. Sempre  alla ricerca di interlocutori parimenti desiderosi di confrontarsi sulle tematiche citate ….  La poesia è la  sua passione velata ; ne ha scritte diverse, mai frivole, ma sempre alla ricerca della forma che coniugasse un profondo intendimento ad una gradevole musicalità ….  Tra queste  “Ombre”,  All’amico, Destino, Leone assorto, Speranza


 

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