Appendice
al libro Totalitarismo, democrazia, Etica pubblica
di
Federico Sollazzo – Aracne Editore
Appendice
L’essenza
più profonda della tecnica
non
è nulla di tecnico.
M.
Heidegger, La
questione della tecnica
Sulla
questione della tecnica
in
M. Heidegger*
Consapevoli
o meno, un certo tipo di modernità continua ad
avanzare,
rimodellandosi costantemente così da potersi insinuare in
ogni
spazio, fisico ed esistenziale.
Sia
che la si voglia accettare, sia che la si voglia rifiutare, sia
che
si
voglia operare una scelta selettiva, è preliminarmente
necessario
comprenderne
la natura, ormai legata a filo doppio con la tecnica
(o
meglio, con un certo tipo di tecnologia) al punto tale che ormai
il
soggetto della storia non risulta più essere l’uomo,
ma la tecnica,
rispetto
alla quale l’uomo appare come suo mero accessorio.
Fra
gli incontri del presente ciclo seminariale (La
filosofia e la società
tecnologica
avanzata),
questo è probabilmente il più complesso da
affrontare
ma proprio per questo ha maggiori implicazioni e conseguenze
filosofiche,
lascia maggiori frutti dal punto di vista filosofico.
Vi
sono nella modernità tre autori in particolare, Arnold
Gehlen,
Martin
Heidegger ed Herbert Marcuse, che mettono al centro della
loro
riflessione il tema della tecnica, affrontandolo da tre
prospettive
diverse
ma intersecantesi: antropologica Gehlen (inerente
all’imprescindibilità
dell’uomo
dalla tecnica), valutativa Marcuse (inerente
all’impatto
sociale della tecnica, al come la tecnica si manifesta
*
Seminario La questione
della tecnica in Martin Heidegger che insieme a
Antropologia
e
tecnica in Arnold Gehlen e Neutralità
della tecnica e (ri)orientamento della
tecnologia
in Herbert Marcuse ha composto il ciclo seminariale La
filosofia e la società
tecnologica
avanzata da me svolto a Roma nel 2010, presso librerie
“Rinascita”. Da
qui
il tono colloquiale del testo (le note sono state inserite in sede
di sbobinamento).
e
viene impiegata e ad al come potrebbe manifestarsi e potrebbe
venir
impiegata alternativamente), ontologica Heidegger, relativa
all’analisi
sull’essenza della tecnica, poiché attraverso
l’essenza della
tecnica
può disvelarsi per Heidegger l’essenza dell’uomo
e l’essenza
di
quel qualcosa di indefinibile che Heidegger chiama Essere,
alludendo
a
ciò che non può essere ridotto e afferrato a parole.
Già da
questa
piccola premessa è evidente che il discorso di Heidegger
per
essere
compreso necessita, diversamente che per Gehlen e Marcuse,
di
porsi in un paradigma concettuale e linguistico diverso da quello
che
utilizziamo abitualmente. Insomma, quell’operazione che
sempre
dovremmo
fare, in questo caso andrebbe fatta con ancora maggiore
impegno:
prima di affrontare un certo autore o un certo argomento,
sarebbe
necessaria un’opera di alfabetizzazione concettuale,
per
comprendere il vocabolario specifico che si utilizzerà
(teniamo
quindi
fermo il punto che i termini che ora incontreremo sono da
intendersi
in un’accezione diversa rispetto al linguaggio ordinario,
un’accezione,
non solo metafisico–ontologica, ma specificatamente
heideggeriana).
Il
punto di vista di Heidegger è ontologico e prende le mosse
dalla
considerazione che la metafisica occidentale si è
sviluppata
in
maniera distorta rispetto a come sarebbe stato opportuno che
si
sviluppasse, perché da Platone in poi, in un percorso che
passa
sostanzialmente
per Aristotele, Cartesio e la scienza moderna, ha
oggettivato
e manipolato quel qualcosa che è per sua stessa essenza
indefinibile
e che in maniera soltanto alludente possiamo chiamare
Essere1.
L’oggettivazione la notiamo palesemente nel modo di
procedere
della scienza moderna: essa crea oggetti per sottometterli
alle
regole che la scienza stessa mette a punto, una regola infatti
può
essere tale soltanto se è riferita ad un oggetto, quindi
anche ciò
che
è nella sua essenza inoggettivabile (nel linguaggio di
Heidegger,
1.
A mio modesto parere Platone andrebbe escluso da questa lista,
poiché egli può
essere
considerato oggettivante soltanto nella misura in cui cerca un
modo per farsi comprendere
dai
suoi contemporanei, disabituati al ragionamento astratto, fornendo
loro
degli
strumenti, i miti, in tal senso; da Aristotele in poi inizia la
reale oggettivazione
dell’Essere.
Sulla
questione della tecnica in Martin Heidegger
l’Essere),
deve necessariamente essere ridotto ad un oggetto perché
soltanto
in questo modo può essere capito, controllato da un punto
di
vista scientifico2.
Quindi la metafisica occidentale da Platone,
per
Heidegger, fino ai giorni nostri si è sviluppata in maniera
distorta
e
degenerante rispetto alla precedente fase, cioè, si è
sviluppata
oggettivando
l’Essere e successivamente manipolandolo tramite la
tecnica;
in questo paradigma, la tecnica altro non è che un modo per
manipolare
ciò che è stato oggettivato.
La
produzione scientifica è costituita dall’oggettività
dell’ente, dal
suo
apparire come oggetto (Gegen–stand)
per un soggetto (questo
rimanda
al fatto che ci troviamo in un’ontologia dividente fra
soggetto
conoscente
e oggetto conosciuto, ovvero un’ontologia del
dominio,
poiché, in questi termini, la conoscenza altro non è
che
l’abito
buono del dominio), la produzione tecnica è costituita
dalla
disponibilità
(Be–stand)
dell’ente, resa possibile dalla sua oggettivazione.
L’ente
cioè è chiamato (pro–vocazione
scientifica) nell’orizzonte
dell’oggettività,
anticipato dalla scienza, affinché sia disponibile
(Be–stand)
ad ogni richiesta d’impiego (pro–vocazione
tecnica) da parte
dell’uomo3.
Qual
è l’alternativa a questo paradigma ontologico che
oggettiva
l’Essere,
tramite la scienza, e lo manipola, tramite la tecnica? Quella
che
si era manifestata prima di Platone: intendere l’Essere non
come
un
qualcosa che debba essere oggettivato, per dominarlo, ma come
disvelamento,
pòiesis,
come un qualcosa con cui si può entrare in
contatto
soltanto tramite una rivelazione, nella quale solo lui, l’Essere,
può
decidere di rivelarsi a noi, quindi, tutto ciò che noi
possiamo
e
dobbiamo fare, è porci in un atteggiamento ricettivo, di
attesa, di
ascolto
propedeutico al suo accoglimento, qualora l’Essere
momentaneamente
— anzi,
direi, con Platone, nell’istante
—
si
riveli a noi.
L’alternativa
ad una metafisica oggettivante è quindi una metafisica
2.
Cfr. M. Heidegger, L’essenza
della cosa, Mimesis, Milano, 2011. Mi permetto di
rinviare
alla critica della razionalità scientifica che, in tal
senso, fa Galimberti, riferendosi
in
particolare alla psicologia.
3.
U. Galimberti, Invito al
pensiero di Martin Heidegger, Mursia, Milano, 1986,
seconda
parentesi
mia.
dell’attesa,
della pòiesis,
del disvelamento (non forzabile, altrimenti
non
sarebbe più tale) dell’Essere nell’istante.
Questo disvelamento
può
avvenire attraverso delle forme privilegiate come l’arte, il
linguaggio
e
la tecnica; così, in un paradigma ontologico nel quale
l’Essere
non
è inteso come qualcosa di oggettivabile (ergo dominabile),
ma
come un ché di indefinibile, verso il quale l’unico
atteggiamento
che
si possa tenere è quello dell’ascolto, attendendo che
sia lui, eventualmente,
a
disvelarsi, la tecnica è da intendersi come una possibile
modalità
del disvelamento dell’Essere.
È
ovvio che un simile discorso sia costruito da Heidegger attraverso
il
confronto con il mondo greco antico, poiché è lì
che v’è sia il
modo
corretto che quello distorto di porsi nei confronti dell’Essere,
di
intendere la metafisica; questo però non significa
semplicemente
riportare
alla luce il già detto, ma rivolgersi al passato per creare
qualcosa
di nuovo:
Ciò
che è stato pensato e poetato agli albori dell’antichità
greca è
oggi
ancora presente (gegenwärtig),
così presente che la sua essenza
rimasta
chiusa ad esso stesso ci sta davanti e ci viene incontro da
ogni
parte, soprattutto e proprio là dove noi meno ce lo
aspettiamo,
cioè
appunto nel dominio dispiegato della tecnica moderna,
che
è completamente estranea all’antichità, ma che
tuttavia ha la
propria
origine essenziale proprio in quest’ultima […] ciò
che, rispetto
al
suo sorgere e imporsi, è primo diventa manifesto solo più
tardi
a noi uomini. All’uomo, l’origine principale (die
anfängliche
Frühe)
si mostra solo da ultimo. Per questo, nell’ambito del
pensiero,
uno
sforzo di pensare in modo ancora più originario ciò
che è
stato
pensato alle origini non è la volontà insensata di
far rivivere il
passato,
ma invece la lucida disponibilità a meravigliarsi di ciò
che
è
avvenuto nell’origine4.
Ora,
come veniva inteso nel paradigma concettuale greco antico
pre–oggettivante,
l’uomo? Heidegger ricorda che prima della definizione
aristotelica
di uomo come zōon
logon ekhon,
ovvero, essere
4.
M. Heidegger, La
questione della tecnica, in Saggi
e discorsi, Mursia, Milano, 2007;
ed
ancora: «Il già pensato prepara soltanto il non
ancora pensato, che sempre di nuovo
ritorna
nella sua pienezza» M. Heidegger, Identità
e differenza, Adelphi, Milano, 2009, p. 44.
Sulla
questione della tecnica in Martin Heidegger
vivente
capace di discorso/ragionamento (il termine logos
racchiude
entrambi
i significati), e non semplicemente essere razionale, come
è
nella scorretta traduzione di Aristotele che viene fatta dal
Medioevo,
prima
di tutto questo, l’uomo è definito come deinón,
che significa
contemporaneamente
terribile e violento:
il
terribile, nel senso dell’imporsi predominante
(überwältigendes
Walten)
che provoca ugualmente il timor panico, la vera angoscia,
così
come il timore discreto, meditato, raccolto […] il
violento, nel
senso
di colui che esercita la violenza, che non solo ne dispone, ma
che
è violento (gewalt–tätig),
inquantoché l’uso della violenza è il
carattere
fondamentale non solo del suo agire, ma del suo stesso
essere5.
Questa
definizione si applica a qualsiasi vivente che è quindi
contemporaneamente
terribile
e violento; questo è a mio avviso un passaggio
cruciale,
poiché affermare che qualsiasi vivente è al tempo
stesso
terribile e violento significa inscrivere la violenza nella vita
quale
sua necessaria cifra, affermare che la vita è per sua
stessa essenza
inevitabilmente
un atto di violenza, e questo è indipendente
da
una valutazione su come si viva (dal modus
vivendi può
giungere
semmai
un surplus
di
violenza), questo ha a che fare con l’ontologia
della
vita, relativamente alla quale va compreso e accettato come la
violenza
sia una, forse, la cifra essenziale della vita: non ci può
essere
vita
là dove non c’è violenza e là dove c’è
vita c’è inevitabilmente
violenza,
la vita pretende questa violenza per darsi e mantenersi, il
semplice
fatto di vivere, di stare al mondo comporta un atto di violenza
verso
qualcos’altro, verso qualcun altro, semplicemente, non
vi
è vita escludendo quest’atto di violenza. E ciò
l’uomo lo condivide
con
tutti gli altri viventi.
Ma
Heidegger, richiamandosi al Coro dell’Antigone
ci ricorda
che
«Di
molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più
inquietante
dell’uomo
s’aderge»6.
Quindi l’uomo ha, come tutti gli altri viventi,
la
violenza inscritta al suo interno, perché è
l’Essere, questo qualco-
5.
M. Heidegger, Introduzione
alla metafisica, Mursia, Milano, 2007, p. 158.
6.
Ibid.
sa
di indefinibile che rende possibile l’esistenza, che è
portatore di
violenza
e che pertanto la inscrive all’interno di tutto ciò
che da lui
deriva,
quindi all’interno della vita di ogni vivente. A differenza
però
di
tutti gli altri viventi, egli non soltanto è portatore,
depositario di
questa
violenza che l’Essere inscrive in lui, ma l’uomo è
l’unico vivente
in
grado di rivolgere questa violenza nei confronti dell’Essere
stesso
(da qui, la possibilità, da Platone e Aristole in poi per
Heidegger
realizzata,
di una metafisica oggettivante). Pertanto, l’uomo è
doppiamente
violento, è violento poiché è depositario
della violenza
che
l’Essere gli comunica in quanto vivente e, differentemente
da
tutti
gli altri viventi, è ulteriormente violento perché è
l’unico ad
essere
in grado di rivolgere questa violenza verso l’Essere stesso
che
originariamente
gliel’ha conferita (ed è proprio questo ciò
che avviene
all’interno
di questa metafisica occidentale che oggettiva l’Essere
e
poi lo strumentalizza, lo manipola tramite la tecnologia). Per
tutto
questo
l’uomo non è semplicemente deinón,
violento, come tutti i
viventi,
ma è tò
deinótaton,
il più violento:
L’essente
nella sua totalità, in quanto si impone (als
Walten), è il predominante
(das
Überwältigende) nel primo senso. Ora l’uomo
è in un
primo
senso deinón,
in quanto, appartenendo per essenza all’essere,
risulta
esposto a questo predominante. Ma l’uomo è pari tempo
deinón
perché è colui che esercita la violenza,
il violento nel senso
suddetto.
(Egli raccoglie l’imporsi e lo reca in un’apertura)
L’uomo
è
colui che esercita la violenza non in sovrappiù o in
concomitanza
con
altro, unicamente nel senso che a ragione del suo agire violento
(Gewalt–tätigkeit)
e in quanto situato in esso usa la violenza nei
confronti
del predominante. Infatti egli è deinón
nel duplice senso,
originariamente
unico, di questa parola; egli è tò
deinótaton il più
violento,
in quanto esercita la violenza in seno al predominante7.
Per
questo, se l’uomo è l’unico vivente a poter
essere definito
come
tò
deinótaton,
il più violento, perché non solo è portatore
di
violenza,
come gli altri, ma è l’unico a poterla rivolgere
verso l’Essere,
egli
non ha alcun limite di sorta: niente e nessuno può
arrestare
7.
Ibid.
Sulla
questione della tecnica in Martin Heidegger 251
questa
sua violenza. Il tò
deinótaton non
ha nessun argine, ad eccezione
della
morte. La morte è dunque l’unico limite del tò
deinótaton,
la
morte è l’unica cosa che può mettere il punto
al tò
deinótaton.
Questo
è per me un punto cruciale, innanzitutto perché qui
risiede
uno
dei passaggi fondamentali di tutta l’Opera di Heidegger,
ovvero
il
fatto che l’uomo sia essenzialmente un essere–per–la–morte,
che
la
cifra fondamentale della vita sia la morte; infatti, c’è
solo una cosa
che
pone immediatamente in scacco ogni far violenza: la morte.
Essa
segna la fine che trascende ogni compimento e il limite che
trascende
ogni limite. Qui non c’è più irruzione, né
dirompimento,
cultura
o assoggettamento. Ma questo fatto inquietante, che espelle
cioè
definitivamente, d’un tratto, l’uomo da ogni quiete
consueta,
non
è un avvenimento che si debba menzionare tra gli altri, per
il
fatto che alla fine esso sopraggiunge. L’uomo è senza
scampo di
fronte
alla morte non soltanto quando viene a morire, ma costantemente
ed
essenzialmente. In quanto l’uomo è, egli sta nel
senza
scampo
della morte. Così l’esser–ci (Da–sein)
è la stessa in–quietudine
accadente8.
E
questo sappiamo che si scontra con la prospettiva arendtiana
per
la quale l’uomo è sostanzialmente nato per agire,
ergo per vivere,
per
iniziare qualcosa di nuovo, di unico e irripetibile, che solo un
essere
umano, altrettanto unico e irripetibile, può generare.
Personalmente
ritengo che tale contrapposizione origini dal fatto
che
Hannah Arendt si ponga (come ad esempio Marcuse) in una
prospettiva
valutativa, mentre Heidegger si collochi in una prospettiva
ontologica
(ma se si vuole esaminare il pensiero di un autore
bisogna
porsi nella sua specifica prospettiva9).
Ma anche accogliendo
la
prospettiva arendtiana, dovremmo constatare come l’azione
avvenga
sempre
sotto l’ombrello della morte.
8.
Ivi, p. 165.
9.
Ad esempio, ritengo sia questo l’errore che condiziona
pesantemente Popper
quando
sostiene che Platone, in particolare nella Repubblica,
sia totalitario: a questa conclusione
si
può approdare solo leggendo Platone con gli occhi di un
moderno, senza porsi
invece,
come è necessario per comprendere (non kennen
ma verstehen),
nel paradigma
concettuale
proprio dell’autore in questione.
Ad
ogni modo, quello su cui ora vorrei richiamare l’attenzione,
è
come unificando la concezione heideggeriana dell’essere–per–la–
morte
con la sua complessiva questione della tecnica, possa trovarsi
una
possibile ipotesi interpretativa del rapporto di Heidegger col
nazismo,
ma
questo sarà meglio chiarirlo in conclusione.
Ora,
se l’uomo è non solo deinón
ma
addirittura tò
deinótaton,
ogni
sua
creazione porta le tracce di questa violenza, quindi anche la
tecnica
è
depositaria di violenza. Questo significa che una metafisica
intesa
correttamente,
al contrario di quanto da più di duemila anni ad
oggi
avviene, come pòiesis,
non elimina affatto la violenza, in quanto
essa
è imprescindibilmente connaturata alla vita, ma che se
inscriviamo
la
tecnica nella metafisica della pòiesis,
quella, insieme all’arte e
al
linguaggio, può essere una modalità di disvelamento
dell’Essere e
può
dare così origine ad una tecnica che Heidegger chiama
“pro–ducente”
(la
tecnica pro–ducente nasce dal porsi in un atteggiamento
di
ascolto nei confronti dell’Essere), mentre se la inscriviamo
in una
metafisica
oggettivante, di dominio essa diventa uno dei vettori attraverso
i
quali viaggia questo dominio, configurandosi così come
tecnica
“pro–vocante”.
Il
far–avvenire concerne la presenza di ciò che di volta
in volta viene
all’apparire
della pro–duzione. La pro–duzione conduce fuori
dal
nascondimento nella disvelatezza (Das
Her–vor–brin–gen bringt
aus
der Verborgenheit her in die Unverborgenheit vor).
Pro–duzione si dà
solo
in quanto un nascosto viene nella disvelatezza. Questo venire
si
fonda e prende avvio (beruht
und schwingt) in ciò che chiamiamo
il
disvelamento (das
Entbergen). I greci usano per questo la parola
alètheia10.
Un
esempio. Se volessimo usufruire dell’energia che scorre in
un
fiume,
un mulino sarà un esempio di tecnica pro–ducente,
perché
usufruisce
di parte di quell’energia senza dominarla e senza
modificarla
significativamente
(in parte il dominio e la modificazione sono
presenti
ed è inevitabile che sia così perché, come
abbiamo visto,
10.
M. Heidegger, La
questione della tecnica, in Saggi
e discorsi, cit., p. 9.
Sulla
questione della tecnica in Martin Heidegger
nella
vita, quindi nell’uomo, quindi nella tecnica, c’è
violenza); laddove
invece
si costruisce una diga, ci troviamo di fronte ad una tecnica
pro–vocante,
che domina l’Essere (in questo caso oggettivando
la
natura e alterando significativamente l’ambiente). In altri
termini,
quando
l’uomo si rivolge all’Essere lo fa dalla sua
imprescindibile
configurazione
di tò
deinótaton,
quindi portando almeno una parte
di
tale violenza verso l’Essere, tuttavia la consapevolezza di
tutto
questo,
può indurci ad un atteggiamento critico, pro–ducente,
non
pro–vocante,
non annichilente l’Essere.
Il
disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello
Stellen,
del “richiedere” nel senso della provocazione. Questa
provocazione
accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura
viene
messa allo scoperto, ciò che così è messo
allo scoperto viene
trasformato,
il trasformato immagazzinato, e ciò che è
immagazzinato
viene
a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di
nuove
trasformazioni. Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare,
ripartire,
commentare sono i modi del disvelamento.
Questo
tuttavia non si svolge semplicemente. Né si perde
nell’indeterminatezza.
Il
disvelamento disvela a se stesso le sue proprie vie,
interconnesse
in modo multiforme, in quanto le dirige. La direzione
stessa,
dal canto suo, cerca dovunque la propria assicurazione.
Direzione
e assicurazione diventano anzi i caratteri principali del
disvelamento
pro–vocante (ovvero) In questa vita che si rivolge in
se
stessa, non familiare nella propria sfera, nella propria
struttura,
nel
proprio fondamento, l’uomo getta i suoi lacci e le sue reti;
egli
la
strappa al suo ordine e la rinchiude nei suoi steccati e nei suoi
stabbi,
imponendo ad essa i suoi gioghi. Prima
si trattava di un uscir
fuori
e di un dissodare ora di cattura e di soggiogamento11.
Una
cosa è attendere che l’Essere si manifesti —
nell’istante
— e
nell’attesa
di tale evento (Ereignis)
creare le condizioni propedeutiche
a
tale disvelamento, altra è controllare, oggettivare,
dominare,
l’Essere.
La
tecnica è dunque, allo stesso tempo, il destino e il
pericolo
dell’uomo.
Destino perché essa è indissolubilmente legata
all’esse-
11.
Ivi, p. 12, e, dopo la parentesi mia, M. Heidegger, Introduzione
alla metafisica,
cit.,
p. 162, corsivo mio.
254
Appendice
re
umano. Pericolo perché se la si vive all’insegna di
una metafisica
oggettivante,
diviene un modo per manipolare l’Essere oggettivato,
diviene
strumento corresponsabile dell’annichilimento dell’Essere,
mettendo
l’uomo ad avere a che fare unicamente con gli essenti, gli
oggetti:
L’essenza
della tecnica risiede nell’imposizione. Il suo dominio fa
parte
del destino. Poiché questo mette di volta in volta l’uomo
su
una
certa via del disvelamento, l’uomo, in questo cammino,
procede
continuamente
sull’orlo della possibilità di perseguire e coltivare
soltanto
ciò che si disvela nell’impiegare, prendendo da
questo tutte
le
sue misure. In tal modo si preclude all’uomo l’altra
possibilità,
quella
di orientarsi piuttosto, in misura maggiore e in modo sempre
più
originario, verso l’essenza del disvelato e della sua
disvelatezza,
esperendo
la adoperata–salvaguardata (gebrauchte)
appartenenza
al
disvelamento come la propria essenza12.
Se
ci poniamo in un’ontolgia della pòiesis,
attraverso il disvelamento
dell’Essere
si disvela, simultaneamente, la nostra essenza,
poiché
l’uomo appartiene all’Essere; annichilendo l’Essere,
invece,
in
una metafisica dell’oggettivazione e della manipolazione,
del dominio,
annichiliamo
anche noi stessi, poiché annichiliamo quella
traccia
di Essere presente dentro l’uomo. Per questo, in un mondo
che
vive nel paradigma della metafisica oggettivante, siamo circondati
da
oggetti che non rimandano all’Essere, non vi alludono (come
invece
farebbero se fossero frutto di una tecnica pro–ducente,
cosicché
noi
potremmo tramite di loro avvicinarci all’Essere, ergo a noi
stessi),
essendo prodotti di una tecnica pro–vocante, non recano in
loro
alcuna traccia dell’Essere, anzi, sono figli
dell’annichilimento
dell’Essere.
Per questo, in un mondo di oggetti artificiali, prodotti
dall’uomo,
sembra che l’uomo, avendo a che fare con quelli, abbia a
che
fare con se stesso, in realtà, per quella che abbiamo visto
essere
la
genesi ontologica di tali oggetti, quella di incontrare se stesso
in
essi,
è solo un’illusione
12.
M. Heidegger, La
questione della tecnica,
in Saggi
e discorsi,
cit., p. 19, corsivo mio.
Sulla
questione della tecnica in Martin Heidegger 255
per
la quale, sembra che l’uomo, dovunque, non incontri più
altri
che
se stesso […] In
realtà, tuttavia, proprio se stesso l’uomo di oggi
non
incontra
più in alcun luogo, non incontra più, cioè,
la propria essenza13.
Abitiamo
quindi un mondo del quale l’Essere non fa più parte,
un
mondo popolato solo da essenti figli di una tecnica pro–vocante,
ovvero
di una metafisica oggettivante, pertanto non rimandanti
in
alcun modo all’Essere, ma anzi, corresponsabili del suo
annichilimento
e
conseguentemente del nostro; poiché la nostra essenza
può
essere illuminata soltanto dall’Essere, disconoscendolo,
dimenticandolo
non
c’è più alcun tipo di luce che possa
illuminare questa
nostra
essenza (aprendo ad altre modalità di esistenza).
Impercettibilmente
lo stesso esser–presente si muta in un essente–
presente.
Da questo punto di vista, cioè a partire dall’essente–
presente,
esso si trasforma in ciò che sta al di sopra di ogni
essente–
presente,
cioè nell’essente presente–supremo. Appena si
parla
di
essente–presente, l’immaginazione corre a un
essente–presente.
Così
l’esser–presente come tale non risulta distinto
dall’essente–
presente
ed è risolto nel più universale e nel più
alto degli essenti–
presenti,
cioè in un essente–presente. Cade così
nell’oblio l’essenza
dell’esser–presente
e con essa la differenza tra esser–presente ed
essente–presente.
L’oblio dell’essere
è l’oblio della differenza fra l’essere
e
l’ente14.
Laddove
non c’è più differenza tra Essere ed ente non
c’è più nessuna
possibilità
di entrare in contatto con la nostra essenza, poiché
essa
non può in alcun modo essere illuminata dagli essenti ma
solo
dall’Essere.
Laddove abbiamo dimenticato l’Essere, riducendolo agli
essenti,
non c’è più nulla che possa illuminare la
nostra essenza. Per
questo,
il pericolo che la tecnica rappresenta per l’uomo non
risiede
affatto
(come troppo spesso ingenuamente viene detto) nelle conseguenze
che
uno strumento o un apparato tecnico può produrre,
bensì
nella «possibilità che all’uomo possa essere
negato di racco-
13.
Ivi, p. 21.
14.
M. Heidegger, Sentieri
interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1999, p. 340.
gliersi
ritornando in un disvelamento più originario e di esperire
così
l’appello
di una verità più principale»15.
Alternativamente,
il sentiero che indica Heidegger è quello del
ricollocarsi
in quella Weltanschauung
pre–platonico–aristotelica,
che
era
quella non dell’ontologia come oggettivazione, ma come
disvelamento.
Potremmo
così tornare ad essere non più, come è stato
in
più
di duemila anni, padroni degli essenti, ma pastori dell’Essere
L’uomo
è il pastore dell’Essere. In questo meno non ci perde
anzi
ci
guadagna, poiché egli perviene alla verità
dell’Essere. Egli guadagna
l’essenziale
povertà del pastore, la cui dignità consiste in
questo:
di esser chiamato dall’Essere stesso alla custodia della sua
verità.
Questa vocazione appartiene all’essere esistenziale in
quanto
proiezione
dell’Essere, in cui è radicato il suo essere gettato
nel
mondo.
L’uomo è nella sua essenza storica quell’essente,
il cui essere
come
ex–sistente consiste in questo: che egli abita nelle
vicinanze
dell’Essere.
L’uomo è il vicino dell’Essere16.
Concludendo,
vi sono a mio parere due osservazioni particolarmente
importanti
e gravide di conseguenze che mi limito qui ad
accennare
e che andrebbero adeguatamente approfondite.
Innanzitutto
(e questo mi sembra ritorni, con le dovute specificità,
anche
in autori quali ad esempio Umberto Galimberti, Herbert
Marcuse,
Pier Paolo Pasolini), è da sottolineare con forza e
chiarezza
come
la problematica fondamentale in cui ci troviamo nel mondo
occidentale,
non è economica, non è politica, non è
ecologica, non
è,
insomma, empirica, bensì ontologica. Tutto deriva da un
dato paradigma
ontologico.
Quindi se arriveremo (come sembriamo ben
incamminati)
al nostro auto–annichilimento materiale, non dovremo
pensare
che questo sia avvenuto a causa degli essenti, un disastro
nucleare,
una guerra, l’inquinamento, ecc, bensì a causa di un
certo
modo
di pensare l’Essere, e con esso, la (nostra stessa) vita.
Inoltre,
in merito all’adesione di Heidegger al nazismo, credo che
tale
adesione vada letta alla luce di quanto precedentemente esposto
15.
M. Heidegger, La
questione della tecnica, in Saggi
e discorsi, cit., p. 21.
16.
M. Heidegger, Lettera
sull’«umanismo», Adelphi, Milano,
2005, p. 81.
Sulla
questione della tecnica in Martin Heidegger
sul
tò
deinótaton,
questo essere che è sommamente violento e che
trova
un limite unicamente nella morte. Mi permetto di ipotizzare
infatti
che in un primo momento l’adesione di Heidegger al nazismo
possa
essere stata dovuta al fatto che, in un pensiero che vede la
problematica
per eccellenza di più di duemila anni di storia occidentale
in
un problema metafisico, abbia visto nel nazionalsocialismo la
possibilità
di una inversione ontologica, qualcosa di assolutamente
nuovo
che avrebbe potuto modificare l’ontologia occidentale;
quando
invece
è risultato evidente come il nazismo non fosse
un’alternativa
alla
metafisica del dominio, ma si inscrivesse anch’esso, come
ulteriore
fase, in tale metafisica, quando è diventato evidente che
anche
quell’unica cosa che sembrava potesse finalmente rovesciare
la
metafisica del dominio, fosse invece parte integrante di tale
metafisica,
allora,
non vi poteva essere altro da fare se non ricorrere a
quell’unico
elemento che può mettere il punto a più di duemila
anni
di
questo tò
deinótaton,
e con esso, di metafisica oggettivante17 (con
la
possibilità, ma non certo la certezza, che l’eventuale
successivo
deinón
non
ripercorra lo stesso sentiero di questo tò
deinótaton).
17.
Tale proposta interpretativa mi sembra possa trovare conferma sia
nel carteggio
Heidegger–Marcuse
successivo alla Seconda Guerra Mondiale, cfr. H. Marcuse, Davanti
al
nazismo, Laterza, Roma–Bari, 2001, sia in
Habermas per il quale la mancanza di senso
critico
in Heidegger nei confronti del nazismo si spiega con la
deresponsabilizzazione
insita
nella svolta (Kehre)
verso l’Essere inteso come Tempo e Storia: «Egli
distacca le sue
azioni
ed affermazioni da sé come persona empirica e le
attribuisce ad un destino di cui
non
si deve rispondere», J. Habermas, Il
discorso filosofico della modernità, Laterza,
Roma–
Bari,
2003; anche se, leggendo la posizione di Habermas alla luce della
mia sopraesposta
proposta
interpretativa, mi permetto di ipotizzare che, inserendo l’uomo
in un certo
destino
(quello derivante da un certo modo d’intendere l’Essere)
Heidegger non abbia
eluso
il ruolo della responsabilità personale, ma abbia
constatato l’irrimediabile sparizione
della
stessa all’interno di questo tò
deinótaton.
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