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Carlo Sini è nato a Bologna nel 1933. Si è laureato con Enzo Paci all’Università di Milano, dove è stato ordinario di Filosofia teoretica. Nel 1994 ha ricevuto la nomina di socio dell’Accademia dei Lincei.  


Abbiamo dialogato con Carlo Sini, un piacevole incontro con uno dei più grandi filosofi contemporanei ....


D. Prof.Sini credo che l’approccio fenomenologico sia il più adatto per affrontare le problematiche umane e sono convinta che la "salvezza" dell’uomo sia da ricercare nella riflessione filosofica. Partirei dal suo ultimo libro L'uomo, la macchina, l'automa per chiederle a quale riflessione può condurre noi uomini contemporanei? In che cosa è utile nella pratica quotidiana?



R. La prima cosa è che certamente la cultura occidentale, non dico che sia nata dalla filosofia perché sarebbe un’esagerazione ma certamente ha avuto nella filosofia una componente essenziale e irrinunciabile. Come si dice, gli altri popoli hanno avuto profeti e sacerdoti, i Greci hanno avuto i filosofi. Indubbiamente la filosofia ha una partecipazione a tutto ciò che l’occidente che poi oggi vuol dire allargato, vuol dire l’America, vuol dire ovunque ci sia una tecnologia ispirata alla nostra scienza. Tutto ciò che ha caratterizzato l’occidente ha nella filosofia un creatore ma anche un complice. La filosofia deve assumersi la responsabilità di quello che ha fatto anche dei limiti entro i quali le ha fatte. Provi a pensare alla fenomenologia, come diceva lei, la fenomenologia ci insegna a guardare senza pregiudizi il fenomeno così come si dà ed entro i limiti entro i quali si dà. Indubbiamente la cultura occidentale ha delle caratteristiche che sono il suo buono ed anche il suo limite.

D. Qual è il suo limite?

R. Il suo limite, mi permetta una battuta audace, è l’alfabeto. Cioè la costituzione di una mente logica sulla base di una struttura oggettivante e assolutamente dimentica dell’aspetto iconico dell’espressività umana. Le faccio solo un esempio, con l’alfabeto noi possiamo leggere qualunque lingua conosciuta, questa è la sua grande potenza, la letteratura è nata di lì. Quando ci si è resi conto che l’alfabeto poteva tradurre tutte le lingue romanze, allora sono nate le lingue romanze. Questa è la sua potenza, però il suo limite è che io posso leggere senza capire niente

D. È vero, divertente. I filosofi dicono delle cose apparentemente banali ma non lo sono. Non ci si pensa a questo…

R. Come diceva Heidegger, le cose troppo vicine non le vediamo. Quindi riuscire a fare un passo indietro come dice la fenomenologia, riuscire a mettercele davanti e guardarle da altrove, aiuta a vederci senza essere troppo catturati. Essendo meno catturati dalla nostra tradizione, dalla nostra origine. Quindi la filosofia ha un grande compito nel mondo contemporaneo che è quello di perimetrare il proprio limite e cercare di costituire un luogo comune dove più culture e più civiltà possono dialogare

D. Come filosofo teoretico ed esperto di Heidegger ci può indicare la strada migliore per poter davvero pensare? Che poi è quello che Heidegger diceva, che cos’è? Come si fa a pensare?

R. C’è un po’ di retorica sul fatto che la scienza non pensa, che noi non pensiamo più. Sono espressioni retoriche che si fanno carico di un disagio e quindi a loro modo esprimono un’esigenza. Però non è che ci sia il pensare, queste categorie sono nate dalla nostra logica alfabetica che appunto oggettivizza le nozioni; dice: la casa, l’uomo, il cavallo, diceva Platone, come se esistessero degli enti che sono corrispondenti a queste parole. In realtà le parole sono in una storia umana, sono una prassi umana, sono una prassi, sono in una costituzione di senso dove non c’è il corrispettivo esterno della parola. Questa è una grande suggestione pericolosa, è quella che Husserl ha combattuto tutta la vita sotto il nome di naturalismo. Heidegger si rendeva benissimo conto che la tradizione filosofica occidentale era potente nella descrizione dell’ente, delle cose, ma proprio per questo non poteva descrivere il gesto che faceva questa operazione che lui chiamava essere, evento del significato, io direi.

Io non credo che si tratti di portare l’essere all’espressione, ma credo di non poter dispiacerci di non poterlo fare perché la pretesa non si rende conto del fatto che la distinzione tra essere ed ente è una conseguenza della nostra grammatica, cioè dell’avere scritto in un certo modo la lingua. Lei pensi che in cinese la parola essere non ha un ideogramma, questo la dice lunga

D. Quindi pensare davvero, cosa vuol dire?

R. Pensare davvero vuol dire mettere in esercizio una pratica complessa che va descritta appunto perché è quella che è il modo in cui pensa un uomo dell’oralità, non è il modo in cui pensa un uomo della scrittura, è qualcosa che coinvolge le sue relazioni con gli altri esseri umani, le sue relazioni sessuali, le sue relazioni economiche, cioè le pratiche di vita di parola e di scrittura nelle quali è immerso. La sintesi di tutto questo noi possiamo dire che è pensare sapendo che facciamo una sintesi

D. Quale è l’utilità della scrittura?

R. La scrittura come già aveva capito molto bene Husserl e su cui è tornato molto bene Derida, la scrittura è un’operazione economica cioè io metto in frigorifero una cosa e la scongelo molto più in là. Questo significa che gli enunciati della lingua parlata sono in situazione. Noi ad esempio adesso siamo in situazione al telefono, ci stiamo confrontando e scambiando queste parole e nel momento in cui lei le scrive queste parole possono andare in Canada così come possono andare nel 2800. Questo è il destino imperscrutabile delle cose. L’operazione è economica nel senso che è produttiva, universalizza il messaggio, lo rende disponibile a molti trasferimenti di senso, ma nello stesso tempo pone il problema ermeneutico fondamentale: ogni volta noi ci scontriamo con un oggetto che bene o male possiamo chiamare scrittura, ma in fondo tutti gli oggetti fatti dall’uomo sono scrittura della sua azione, delle sue tracce

D. La sua testimonianza

R. Sì, del suo lavoro, della sua operatività. Ecco non dobbiamo cadere nella superstizione oggettivistica, naturalistica, storicistica “adesso ti dico cosa lui voleva fare”. Certo questa è una buona intenzione che può armare le nostre capacità di interpretazione, ma il risultato è sempre un incontro del destino al quale noi portiamo il nostro contributo. La scrittura è il luogo del dialogo, il luogo della trasformazione conforme e non un luogo di oggettività imposta

D. Secondo lei, Platone, un filosofo a cui mi ispiro molto, in che cosa soprattutto è attuale?

R. Se non facciamo di Platone la lettura, che io trovo inadeguata, di un aristocratico che guardava all’indietro che quindi condannava la scrittura e perché aveva una visione gerarchico-piramidale della società che sono tutti aspetti che possiamo avvallare. Ma non è solo questo, Platone è colui che ha scritto migliaia di pagine

D. Quindi difficilmente la considerava in modo negativo

R. È stato uno dei più grandi scrittori e quando costituiva la sua città ideale (La Repubblica, n.d.r.) lo faceva in base all’idea di giustizia e di pace. In queste cose Platone aveva antiveduto molti nostri problemi con una durezza, con una profondità

D. Lucidità, perché lo trovo molto attuale. Più lo leggo e più mi rendo conto che parla di noi

R. Ma vede la questione dell’attualità la penso sempre come mi ha insegnato a pensarla Peppo Pontiggia, di cui ero tanto amico, il quale diceva: “Il problema non è che gli autori classici sono attuali, il problema è che noi siamo attuali rispetto a loro”

D. Bella, mi piace. Forse siamo più indietro, siamo involuti

R. Esattamente

D. Dal p.d.v. del filosofo, che valore e significato possiede Freud per l’uomo di oggi?

R. Certamente Freud appartiene a quella onda di pensiero che da Marx a Nietsche ha iniziato a mettere in dubbio che si potesse fondare la verità sulla sorta di soggetto, nel senso sub-jectum ciò che sta sotto saldamente, e che ha un’evidenza prima come pensava Cartesio. Freud si rende conto che l’atto di parola ha un soggetto anonimo che parla molto prima della nostra autocoscienza, su questa base Freud non ha fatto una filosofia, ma ha inventato una pratica straordinaria, questa è la grandezza di Freud anche se in molte cose teoriche era stato preceduto da Nietsche e da Hartman

D. Infatti leggendo i testi di Freud, mi viene in mente il Disagio della civiltà, si riscontrano molte tracce dei filosofi che l’hanno preceduto come Hobbes

R. Sì, anche di Goethe perché come tutti i Tedeschi era un grande lettore di Goethe. Ma la grandezza di Freud è stato il gesto di dire: “Adesso ti sdrai, non mi vedi ed se non parli sto zitto”. Ciò rimanda al soggetto come specchio, quello che il soggetto crede di essere. Noi siamo costituiti nel linguaggio dell’altro, è l’altro che dice che mi chiamo Carlo se no io non ne sapevo niente. Ciò rappresenta una scissione tra la mia vita vivente e ciò che di me fanno gli altri, come direbbe Sartre. Gli altri nel bene e male mi mettono in carrozza, mi dicono: “Sali, che tu sei Carlo”. Da questo momento la mia verità è duplice, è la verità che vogliono gli altri e la verità che io sono per gli altri. Freud ha lavorato in questa scissione in maniera ammirevole perché l’ha sperimentato in ogni seduta analitica, se l’analista è bravo

D. Ciò è fondamentale. Lei cosa pensa del filosofo come consulente che “cura”?

R. È molto sviluppato in altri paesi, in Italia è ancora all’inizio. Direi che in una società complessa come la nostra che costituisce solitudini incredibili nella complicazione della vita quotidiana non c’è più un interlocutore che abbia un’autorità, come un tempo la avevano i parenti anziani, il prete

D. Anche il maestro

R. Certamente il maestro, oggi abbiamo la tendenza a distruggere tutte queste autorità a non costituirle più. In America non c’è più il rapporto professore studente che qui c’è ancora un po’. Ormai tutti parlano di professionalità, parola che a me da un qualche disagio perché in filosofia la professionalità non è una testimonianza importante. Allora è evidente che avere una persona dotata di maggiore esperienza, di maggiore cultura, di maggiore saggezza, di una certa capacità di auto-capacità di analisi…ecco tutto questo non è una cura, ma forse nemmeno la psicoanalisi è propriamente una cura. La filosofia come cura è un’analisi a trecentosessanta gradi che non si fa solo carico dei disagi di colui che viene ma anche della sua visione della vita. Gli dà degli strumenti, una volta la scuola ci aiutava in questo

D. Infatti ciò che manca nella scuola è questo tipo di rapporto

R. Vero e la cosa tragica è che sta cominciando a mancare nelle università italiane. Lo dico con grande amarezza, nelle università italiane si trasmettono nozioni, ma nessuno impara. Molte persone non imparano niente, imparano nel senso profondo. E allora il rapporto con un filosofo che faccia da maestro viene a riempire un buco

D. Infatti, secondo la mia esperienza, ai bambini manca spesso quello che lei ha detto sia a casa che a scuola

R. Perché non si capisce, questo Platone, lei che ama e io adoro, lo aveva capito. Non si capisce solo con le parole ma anche col fuoco dell’amore, se non c’è l’entusiasmo non si capisce niente


Maria Giovanna Farina




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