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Fede

 

I fatti non penetrano nel regno dove vivono le nostre fedi: non le hanno generate, né le distruggono; potranno infligger loro le più costanti smentite, senza affievolirle”[1].

 Sembra che tutto ciò che esiste sia una causa oppure un effetto o ambedue le cose, a seconda del punto di vista. Un albero è la causa delle mele che vi fioriscono, ma anche l’effetto di un seme piantato anni prima da qualcuno. La ragione non sa darsi pace finché non ha scovato questo legame misterioso, questo arcano, che unisce in modo necessario i fenomeni tra di loro. Essa dice: “se questo, dunque quello”, “se quello, dunque c’è stato questo”. La percezione non sarebbe mai in grado di sottoporre i fenomeni alla necessità, perché questa sfugge al regno dell’apparenza sensibile ed è scovata e smascherata solo operando al di là di esso. Qual è la causa della salute e della malattia? I medici si affannano ogni giorno a ripeterci instancabilmente le regole salutari, che bisogna mangiare certe cose e non altre e in certe quantità, che bisogna fare sport senza esagerare con gli sforzi, ai diabetici proibiscono i dolci, agli stitici consigliano la verdura, a chi ha mal di stomaco di smettere di fumare. Dobbiamo essere grati ai medici per i loro preziosi consigli, ma, esortando a fare questo e non quello, cosa intendono? Intendono certo dire che i vari organi del corpo, se vogliamo che funzionino, devono agire in un determinato modo e solo in quello, mentre altri modi sarebbero fatali, ci procurerebbero noie, dolori, morte. I medici intendono porre un legame di causalità e di necessità tra due fenomeni: se gli organi del corpo agiscono in quel determinato modo, ne deriva la salute. Il legame di causalità istituito dai medici lascia in ombra il perché di se stesso, la propria giustificazione. Si pone questa domanda: perché la salute scaturisce proprio da quel determinato coordinamento delle varie parti del corpo e non invece da un altro? Come mai viene privilegiato il numero di 60 battiti del cuore al minuto e non invece il numero 3 o il numero 300? Perché mai nel nostro organismo non possiamo introdurre sassi e vetri? Insomma, perché mai il nostro organismo è fatto proprio in quel modo, perché esiste il cuore, il sangue, i polmoni ecc.? La risposta che essi certamente darebbero, dopo un istante di perplessità verso un interlocutore così assurdo, è che questi altri modi di coordinamento procurerebbero senza ombra di dubbio un dolore atroce e la morte. Ma con ciò non si è progrediti di un passo. Noi volevamo la giustificazione, il perché di questo legame di causalità. Perché un certo coordinamento dei vari organi produce la salute, mentre gli altri producono la malattia? I medici possono fornire solo un’analisi per così dire empirica, valutano i due fatti e mettono una freccia in mezzo a loro: un certo coordinamento → salute; altri coordinamenti → malattia, così viene espresso un legame di causalità. Ma questo tipo di causalità sembra non giustificato, in quanto, se è vero che la salute è associata a quel coordinamento, tuttavia non si capisce come mai ciò avvenga. Fra i due termini bisognerebbe allora mettere un trattino e non una freccia, per significare che tra loro avviene una giustapposizione casuale, fino a tanto che non si scoprirà sul serio il perché. Un determinato coordinamento degli organi è giustapposto alla salute, mentre altri sono giustapposti alla malattia, e se fra di essi vi sia un legame di causalità, può ben darsi, ma ci riesce inesplicabile. Questo argomento si potrebbe applicare a qualsiasi altra situazione. Ci si chiede il perché noi viviamo di gioie e dolori, perché essi sono così presenti e perché mai non siamo invece assaliti da altri sistemi; e perché mai abbiamo le nostre percezioni uniche; e perché mai abbiamo speranze e timori; e non da ultimo, perché mai dobbiamo discutere del perché di tutto ciò? Non sappiamo rispondere, prendiamo quel che capita come bastante e lasciamo alla ragione il compito di illuderci nel suo regno fantastico e affascinante. Alcuni pensano di introdurre una mente divina che ha imposto il legame causale, il quale, pur sfuggendoci, dobbiamo solamente accettare, anche se per noi inconcepibile. Ma se nulla sappiamo di esso, è lecito anche dubitare che esista. Altri invece, come i medici, pensano a una causalità interna ai fenomeni. Se io avvicino il legno al fuoco, quello brucia: dunque la causa sta nel fuoco e l’effetto nel legno bruciato, oppure la causa è il legno bruciato e l’effetto è un fuoco maggiore. Perché mai il fuoco ha il potere di bruciare il legno, i fisici e i chimici certo ce lo direbbero, ma non potrebbero, analogamente ai medici, oltrepassare la soglia di una constatazione empirica che non fa altro che confermare il trattino fra i due fenomeni: non saprebbero dirci perché il fuoco e non l’acqua può bruciare il legno. I medici, i fisici, i chimici si fermano alla percezione, mentre la causalità sfugge loro anche se sono convinti di averla afferrata. Nell’ambito della percezione i fenomeni sono giustapposti fra di loro. La causalità sembra un ente estraneo alla percezione. Esso intende instaurare un disegno di unitarietà dei fenomeni che, lasciati alla percezione, giacerebbero ognuno per conto suo nella propria assolutezza e irriducibilità. Il disegno si avvale delle gerarchie spazio-temporali. La gerarchia più propria della causalità è quella temporale. ‘Il fuoco brucia il legno’ significa che il fuoco viene prima e il legno dopo; la causa è anteriore al suo effetto. Il fuoco brucia ed in seguito il legno diventa cenere. La causa non solo viene prima nella proposizione ‘se questo, dunque quello’, ma anche nel tempo. Quando il legno viene avvicinato al fuoco, comincia a diventare cenere: mentre fuoco e legno sono a contatto, avviene la trasformazione del legno in cenere. Ma tale trasformazione avviene contemporaneamente al contatto del legno col fuoco. Appena essi vengono a contatto, inizia la trasformazione. Causa ed effetto perdono dunque la loro gerarchia temporale, in quanto è falso dire che prima viene il fuoco ed in seguito il legno brucia, quando invece tutto questo avviene nel medesimo tempo. Il concetto della causalità sotto la determinazione temporale è insostenibile: nel suo ambito è impossibile concludere qual è la causa e quale l’effetto perché non esiste un prima e un dopo. Un’altra ambiguità sta nella stessa proposizione causale ‘se questo, dunque quello’. Il fuoco brucia il legno e ne è quindi la causa, ma, nello stesso tempo, il fuoco è fuoco che brucia il legno solo se il legno gli si approssima, ed in questo caso è invece il legno la causa del fuoco. Le due proposizioni causali ‘il fuoco brucia il legno’ e ‘il legno permette al fuoco di essere tale’, sono valide ambedue, rimanendo all’interno della legge causale. Quindi, nella proposizione ‘se questo, dunque quello’, il ‘questo’ e il ‘quello’ possono essere sostituiti da ‘fuoco’ oppure da ‘legno’, a piacere. Avviene un circolo vizioso di questo tipo: ‘se si dà il fuoco che brucia il legno, ne deriva che il legno permette al fuoco di essere tale diventando cenere’ – e, nello stesso tempo, ‘se si dà il legno che permette al fuoco di essere tale diventando cenere, ne deriva che il fuoco brucia il legno’. La sostituzione del ‘questo’ con il ‘quello’ e viceversa lascia intravedere l’impossibilità di stabilire qual è la causa e quale l’effetto. Si può cercare una scappatoia dicendo che ambedue sono sia causa che effetto, con il che non si capisce allora perché si siano introdotte queste due parole, quando non hanno alcuna differenza. Al naufragio della gerarchia temporale potrebbe far da sponda quella spaziale. Si potrebbe dividere lo spazio in cui avviene la causalità: il legno sta sotto, mentre il fuoco sta sopra. Io vedo che nello spazio di sotto il legno diventa a poco a poco cenere e quindi imputo questo mutamento a ciò che sta sopra, al fuoco. Tuttavia questa divisione non tiene conto della realtà: è ben vero che la cenere è sotto, mentre il fuoco si innalza al di sopra di essa, ma qui non c’è più causalità. La cenere è ormai uscita dal processo causale, mentre il fuoco che vediamo alto, anch’esso viene sospinto dal fuoco che sta alla base (se ci è lecito fare queste sezioni), ed anche lui è fuori del processo: e dunque, il vero processo causale che ci interessa, avviene alla base del fuoco e alla sommità del legno; tutto il resto rimane estraneo. E qui, al punto di contatto, è impossibile dividere in due lo spazio, perché il processo causale avviene in uno spazio nel quale fuoco e legno sono inseparabili. Anche la gerarchia spaziale sembra inadeguata. Le due gerarchie, su cui poggia la legge causale, sembra non possano essere sostenute con rigore. Sesto Empirico introduce in questa questione, come in altre, il tropo del diallele, inventato da Agrippa: è un circolo dove si vuole dare la prova di una cosa, ma tale prova ha bisogno, per sostenersi, della cosa stessa di cui è prova; cioè ambedue i termini hanno bisogno della conferma l’uno dell’altro. “Perciò è verosimile che la causa esista. Ma è, anche, verosimile il dire che non esiste qualche cosa che sia causa di qualche cosa. […] è impossibile concepire la causa prima di avere compreso l’effetto, come suo effetto. Allora, infatti, noi conosciamo che è causa dell’effetto, quando comprendiamo questo come effetto”[2]. A molte convinzioni non si arriva tramite il ragionamento, ma tramite l’abitudine: “L’abitudine è una seconda natura, e non meno potente”[3]. “Secondo il mio sistema, tutti i ragionamenti non son altro che effetti dell’abitudine, e l’abitudine non ha altra influenza che di ravvivare l’immaginazione e darci una forte rappresentazione dell’oggetto”[4]. Pascal prende a prestito da Cartesio (che altrove critica aspramente) l’idea dell’automa: noi siamo anche macchine che agiscono in modo meccanico. Le cose dimostrate sono ben poche. Invece l’abitudine genera le prove più efficaci e più credute. Non vi è alcuna dimostrazione che domani tornerà a splendere il sole, o che un giorno moriremo, eppure non vi sono cose più fermamente credute. Dunque, è l’abitudine a persuadercene. Essa senza violenza, senz’arte, senza argomentazioni, ci fa credere le cose e inclina verso questa credenza tutte le nostre facoltà, di modo che la nostra anima ci cade naturalmente. Il discorso di Pascal sulla fede in Dio può essere esteso a qualsiasi tipo di credenza, come fa anche lo stesso Pascal. Ogni fede che noi abbiamo sembra scaturire da qualcosa che in noi opera già, e non da una convinzione elargita dalla concatenazione cosciente di pensieri messi in moto per giungere a prove stringenti ed inoppugnabili in grado di stabilire una oggettività e una imparzialità. “La testimonianza dei sensi è un’operazione spirituale in cui la convinzione produce l’evidenza”[5]. Proust intende dire che se uno ha la convinzione di sentire o vedere qualcosa, ebbene lo vede o sente a prescindere dal dato oggettivo. Egli non mente, è proprio convinto di aver sentito o visto la cosa che dice di aver sentito o visto. I punti fermi delle credenze hanno anche a che vedere con l’economia del nostro cervello, dal qual fatto Pascal arriva all’esclamazione: “Il credere è così importante! Altrimenti, cento contraddizioni sarebbero vere”[6]. Se si crede qualcosa allora si restringe lo spettro della nostra veduta, altrimenti dispersa in 100 cantoni, per cui 100 cose sarebbero tutte vere e quindi contrastanti: non ci sarebbe ordine. Le preferenze che si accordano a determinati oggetti o idee possono avere le loro cause altrove che nei sentimenti o nelle passioni? Pascal riporta le parole di un conoscente: “«Le ragioni mi vengono in mente dopo: sulle prime, una cosa mi piace o mi spiace senza che ne sappia il motivo; eppure, mi spiace per il motivo che scopro più tardi». - E poi commenta - Ma io credo che non la cosa spiaccia per le ragioni che si trovano in un secondo tempo, bensì che queste ragioni vengano trovate solo perché la cosa spiace”[7]. Noi vediamo benevolmente solo ciò che ci piace e solo in seguito cerchiamo di giustificare questa preferenza con ragioni che riteniamo oggettive e di cui siamo persuasi come fossero giudizi imparziali. Ma esse è dubbio che sarebbero state scovate in assenza di quel piacere che ci diede quell’oggetto o quella idea. “In amore come in affari, nella scienza come nel salto in lungo è necessario credere prima di guadagnare e di vincere, e come non dovrebbe esser lo stesso anche per la vita in genere? Per quanto il suo ordine possa essere solido, c’è sempre una parte di invo­lontaria fede in quell’ordine [...], e quando si logora quella fede, per la quale non v’è rendiconto né copertura, segue ben presto la rovina; appena il credito vien meno, epoche e regni crollano come aziende commerciali”[8]. Credo ut intelligam: bisogna credere per capire; bisogna aver fede in qualcosa per ottenerla. Le rivoluzioni scoppiano quando l’ordine esistente ha perduto credito; e così muta l’interesse per le persone a cui abbiamo tolto la nostra fiducia. Di un oggetto che mi capita sotto gli occhi, di un suono che arriva alle mie orecchie, di un profumo che entra nel mio naso, di una cosa che io tocco, di tutto ciò talvolta sono solito dire che è bello o brutto nelle loro varie gradazioni. Come già detto, ognuno dà un suo giudizio e ciò che per me è bello per altri può essere meno bello o brutto. Anche se varie persone dicono che un oggetto è bello, non lo dicono alla stessa maniera. Si può dire che ogni oggetto, ogni suono, ogni odore, sono contemporaneamente bellissimi, belli, meno belli, scarsi, brutti, bruttissimi. Se un oggetto viene mostrato a molte persone, non vi è dubbio che la gamma che va dal bruttissimo al bellissimo sia tutta esplorata. E poi non è il caso di insistere sul mutamento di giudizio che avviene in ogni individuo nel tempo. Se il giudizio estetico vuol essere un giudizio oggettivo basato sull’oggetto, fallisce il suo scopo. Si può allora pensare che il giudizio sull’oggetto non si basi sull’oggetto? Se l’oggetto fosse bello o brutto in sé, tutti dovrebbero convenirne, ma accadendo il contrario, se ne desume che bellezza e bruttezza appartengono alle nostre percezioni, mentre non sappiamo se siano anche adeguate all’oggetto. Bellezza e bruttezza sono solite accompagnarsi in noi a sentimenti di gioia e dolore, stupore e angoscia, speranza e delusione, ed è chiaro che solo in noi sentiamo ciò. Siamo noi gli inventori delle qualità estetiche degli oggetti? Se eliminassimo la percezione, gli oggetti non sarebbero più né belli né brutti. Prendiamo ora un tipo speciale di oggetti, quelli che appartengono all’arte. I quadri, la musica, il teatro, la poesia, sono oggetti costruiti proprio con l’intento di essere belli. Se abbiamo sottratto il giudizio estetico oggettivo agli oggetti della natura e ai manufatti che ci servono nella vita pratica, così non dovrebbe avvenire per gli oggetti dell’arte, perché, anzi, questi sono proprio in funzione di un giudizio estetico oggettivo. Tuttavia è facile far rientrare gli oggetti artistici nel gruppo di tutti gli altri. Un quadro per alcuni sarà bello per altri brutto e così per le sonate, le poesie, le tragedie. Sembra che gli oggetti non contengano qualità estetiche, ma che queste siano interne alle percezioni. Ma perché un oggetto ci piace? Io risponderei così: ci può piacere o attrarre solo ciò che già abbiamo in noi. Se, mentre stiamo contemplando un’opera d’arte, ci perdiamo nell’oblio, è come se quell’opera la producessimo noi stessi, la facciamo nostra, ne siamo noi gli artefici, mentre l’artista che ce l’ha proposta scompare, il suo compito inconscio è stato quello di metterci di fronte a noi stessi: nella sua opera ci specchiamo, in essa troviamo noi stessi, perché noi siamo quell’opera, perché essa era già in qualche modo dentro di noi, non certo in quanto quadro o scrittura musicale o romanzo, ai quali l’artista ha lavorato, ma nel senso che ci era già presente quel sentore trasmessoci dall’opera e che ci ha rivelato una parte di noi stessi. Ovviamente l’artista ha lavorato per sé, la sua maieutica è involontaria: non c’è contatto fra artista e fruitori e fra i fruitori tra di loro; ognuno di essi persegue un suo piano. La situazione viene messa in moto dall’individuo di fronte all’opera d’arte, non da quest’ultima. Solo a colui che ha già dentro di sé l’opera, questa può parlare un linguaggio che lui comprende perché questo linguaggio è lui stesso.  Pascal riteneva Montaigne un suo maestro, infatti vi aveva attinto a piene mani. Ma egli era convinto di un altro tipo di rapporto che lo legava al maestro: “Non in Montaigne, ma in me stesso, trovo tutto quel che vedo in lui”[9]. Solo ciò che è in me è valido per me. nessuno insegna nulla a nessuno. Ciò che io trovo in altri, è in me che in verità lo trovo. Gli altri possono solo dirmi cose che sono già in me, altrimenti non le ritengo valide e non le comprendo. È la fede ad avere sempre la prima e ultima parola, essendo tutto il resto sua duplicazione, sua emanazione, sua proiezione? Il mondo che sperimentiamo è nostro prolungamento, è creazione dei nostri desideri e delle nostre paure? “Come nessuno può, con un sillogismo, indurre un uomo contento a pensare di non essere contento e un uomo afflitto a pensare di non essere afflitto, così nessuno può indurre chi è convinto di una cosa a pensare di non essere convinto”[10]. Solo ciò che è già in me posso imparare. Solo ciò che è già dentro di me mi potrà venire dall’esterno, cioè nulla mi può venire dall’esterno.

[1] Marcel Proust, Du côté de chez Swann (tr. it. di Natalia Ginzburg, La strada di Swann, Torino, Ei¬naudi, 1984, p. 158). [2] Sesto Empirico, Schizzi pirroniani (tr. it. di Onorato Tescari), Bari, Laterza, 1988, p. 126. [3] Michel De Montaigne, Essais, (tr. it. di Virginio Enrico, Saggi, Milano, Mondadori, 1986, libro III, p. 245). [4] David Hume, A Treatise of Human Nature (tr. it. di Eugenio Lecaldano ed Enrico Mistretta, Trattato sulla na¬tura umana, Bari, Laterza, 1982, p. 163). [5] M. Proust, La prisonnière (tr. it. di Paolo Serini, La prigioniera, Torino, Ei¬naudi, 1982, p. 192). [6] B. Pascal, op.cit., p. 59. [7] Ivi, p. 113. [8] Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (tr. it. di Anita Rho, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1957, pp. 512-513). [9] B. Pascal, op.cit., p. 22. [10] S. Empirico, Contro i logici (tr. it. di Antonio Russo), Bari, Laterza, 1975, p. 278



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