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LA DRAGONA



Anche quest’anno la festa delle candele si è conclusa col solito grande falò, quasi a voler ricordare quando ci si riuniva attorno al fuoco per esorcizzare gli eventi avversi che immancabilmente si paravano innanzi all’uomo delle caverne. Ognuno si allontana verso casa portando con sé, gesto apotropaico, un resto carbonizzato del fantoccio fatto di stracci e cartapesta, icona della Dragona, la custode delle candele. Si riteneva portasse fortuna trovare il resto di un qualsiasi scritto non completamente combusto. Dalle parole leggibili rimaste sarebbe stato possibile trarre presagi per tutto l’anno. Nelle usanze degli abitanti di Stearigo la Dragona rappresentava colei che dava, o non dava, le candele di cui era la custode temuta e indiscussa. Essere nelle sue grazie voleva dire assicurarsi la luce nelle lunghe fredde e buie notti invernali: nei suoi confronti esisteva un radicato rapporto di odio-amore che nessuno, per paura, osava palesare. Questa usanza, iniziata secoli fa, è continuata a vivere anche se ora le candele sono state sostituite dall’energia elettrica; non si sa mai quassù tra i monti, basta poco per rimanere al buio, un fulmine, una frana o una slavina più di una volta hanno lasciato Stearigo privo della corrente anche per settimane e allora le candele ritornano alla grande e tenersi buona la Dragona non è mai male, è un po’ come quelle persone che dicono di essere agnostiche nei confronti della religione ma in fondo credono più per paura che per convenienza, sempre per il solito “non si sa mai”.

Primo, il quarto di cinque figli, chiamato così perché il primo era morto e per scaramanzia i genitori avevano voluto aspettare un po’ di tempo prima di ri-tirare fuori il nome, così al quarto figlio ritennero che fosse arrivato il momento giusto per riproporlo, trova addirittura l’intero articolo di un ingiallito giornale e, senza neppure leggerlo, lo intasca quasi senza farsi accorgere per chissà quale nascosto arcaico e si allontana velocemente. Giunto a casa, una piccola baita sul versante nord della montagna dove d’inverno il sole non batte mai e i fili della corrente elettrica non sono ancora arrivati, estrae dalla tasca del giaccone lo stralcio di giornale con i bordi ancora bruciacchiati, accende il lume a petrolio e con la cura che gli permettono le sue grosse e ruvide mani da montanaro lo distende per bene sul vecchio tavolo in legno di castagno stagionato. Il giornale è molto vecchio, risale al periodo della I Guerra Mondiale, il 1917, 22 agosto del 1917. A quell’epoca dovevano ancora nascere i genitori di Primo, ma suo nonno Giuseppe aveva combattuto nella Grande Guerra e ci aveva anche lasciato una gamba. Con crescente interesse misto ad ansia inizia a leggere l’articolo, la cronaca di una disgrazia, un masso che staccatosi dalla montagna aveva travolto una malga uccidendo il pastore che vi abitava. Le indicazioni portano Primo a ritenere che la malga travolta si trovasse proprio nello stesso punto in cui ora sorge la sua baita. Con la mente risale ad una storia che gli raccontava suo nonno Giuseppe per farlo addormentare: la storia di un montanaro che si diceva che avesse trovato un tesoro e l’avesse nascosto sotto terra chissà dove. Alla sua morte, nonostante l’avessero cercato in tanti nessuno l’aveva mai trovato, tant’è che si pensò fosse una favola. Nell’articolo che Primo stava leggendo si parlava anche di questo tesoro che all’epoca dei fatti era ancora ritenuto reale.

Da quel giorno iniziò così a cercare il fantomatico tesoro, con la convinzione che fosse senz’altro seppellito in prossimità della sua baita. Da quel giorno ogni momento libero lo dedicava alla ricerca, un po’ dappertutto tutt’intorno, sia lungo i fianchi della casa che all’interno finché un giorno, scavando sotto il caminetto gli parve di sentire, picconando, qualcosa di diverso dal solito rumore delle pietre battute. Più scettico che convinto iniziò a scavare con maggiore attenzione e delicatezza fino a quando apparve una sorta di grosso coperchio metallico. Dopo un lungo lavoro si trovò davanti ad un baule di legno rinforzato da fasce di ferro arrugginito fissate con grosse borchie. È chiuso da un catenaccio. Col cuore stretto dall’emozione dopo un lungo e alacre lavoro lo estrasse con grandissima fatica facendo forza con più leve e senza neppure tentare di aprirlo, pesantissimo, lo nascose.

Trascorre una notte insonne col pensiero rivolto al possibile contenuto del forziere: mille e più congetture prendono forma e svaniscono nella sua mente. Di primo mattino, quando è ancora buio accende una candela e comincia ad armeggiare intorno al suo tesoro finché ogni resistenza viene meno e rimane solamente da alzare il coperchio e godere del contenuto. Emozionato e tremante lo solleva. Una massa dura e compatta, bianca come il ghiaccio del ghiacciaio,

si offre ai suoi occhi avidi, ma non capisce di cosa si tratti. Chiede aiuto a tutti i suoi sensi ma solo l’ultimo, il gusto, rivela la natura del tesoro. Sale!



A cura di Max Bonfanti





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L'accento di Socrate