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Intervista ad Alfredo Paternoster

docente di Filosofia e teoria dei linguaggi – Università di Bergamo

 

Professor Paternoster, che rapporto c’è tra la filosofia e le neuroscienze?

Uno dei compiti oggi più importanti della filosofia è quello di far interagire l’immagine scientifica del mondo con l’immagine di senso comune, chiarendo qual è la rilevanza delle ipotesi e scoperte scientifiche per la nostra vita. Questo è particolarmente evidente nel caso delle neuroscienze, perché il funzionamento del cervello determina, almeno in parte, il funzionamento della mente e pochissime cose, se pure ce ne sono, sono per noi più importanti della mente. Nell’interagire con le neuroscienze, quindi, la filosofia deve innanzi tutto porsi l’obiettivo di chiarire se e in che modo una certa ipotesi neuroscientifica ha delle conseguenze sulla comprensione che abbiamo di noi stessi e della nostra vita mentale. A mio giudizio in questi ultimi anni c’è una tendenza a sopravvalutare la rilevanza di tali scoperte, anche se questo atteggiamento è certamente preferibile a quello opposto, che rischia di scadere nell’oscurantismo. Facciamo un esempio di grande rilevanza. Gli esperimenti di Benjamin Libet hanno evidenziato che la nostra intenzione cosciente di eseguire un’azione è in ritardo di qualche centinaio di millisecondi sul cervello, nel senso che questo ha dato avvìo all’azione prima della nostra decisione cosciente di eseguirla. Come dire che si diviene consapevoli di un evento mentale –in questo caso, una decisione-- solo “a cose fatte”.  Che senso dobbiamo dare a questo fenomeno? Dobbiamo dedurne che le nostre azioni coscienti in realtà non sono affatto tali,  e dubitare quindi dell’esistenza del libero arbitrio? Si noti come la nozione stessa di intenzione volontaria diventa inintelligibile, perché è difficile dare senso all’idea di un’intenzione volontaria non consapevole. Produrre ipotesi interpretative e valutarne la cogenza è uno dei compiti della filosofia; e si noti come, in casi come questo, interpretare gli esperimenti possa implicare anche di suggerire nuove ipotesi sperimentali.

Lei parla di una nuova visione della mente che è distribuita nel cervello, nel corpo e nell’ambiente naturale e sociale: cosa significa ciò rispetto alla visione tradizionale di mente?

Questa nuova visione (di cui, devo precisare, non sono molto convinto: la descrivo ma ne accolgo solo alcuni aspetti) è dirompente perché demolisce un modello della mente, quello cartesiano, che non solo è stato fino a oggi quello favorito dai filosofi, ma corrispondeva molto bene alla visione pre-teorica ed intuitiva che ognuno di noi ha dei fenomeni mentali. Se la cosiddetta tesi della mente estesa/distribuita è appropriata, infatti, noi non siamo più padroni esclusivi dei nostri stati mentali, l’ambiente naturale e sociale permea persino i recessi della nostra interiorità e ogni processo cognitivo è l’esito di una cooperazione tra una moltitudine di persone ed artefatti nella quale non ha più molto senso discriminare i singoli contributi, le singole “intelligenze”. Né sussiste una chiara linea di demarcazione tra noi e gli artefatti, tra una sedicente intelligenza naturale e quella artificiale. Che i confini del nostro corpo siano provvisori e concettualmente irrilevanti sarà sempre più manifesto via via che disporremo di protesi sempre meglio integrate col nostro corpo.

Il suo ultimo libro Persone, menti, cervelli. Storia, metodi e modelli delle scienze della mente scritto con Massimo Marraffa affronta temi davvero interessanti. Ci può dire quali traguardi ha raggiunto lo studio cognitivo, emotivo e comportamentale dell’essere umano?

Un’acquisizione cruciale, premessa metodologica di molte altre scoperte, è che diversi nostri comportamenti non derivano dall’esercizio di un’intelligenza generale, applicata a diversi problemi, bensì da risposte rapide di sistemi specializzati. La percezione, ad esempio, è un processo altamente automatico e in buona misura impermeabile alle nostre conoscenze, aspettative ed intenzioni. Insomma il cervello, e con esso la mente, è più una collezione di laboriosi specialisti che un genio multiforme.

Tra le scoperte più specifiche, potrei menzionare:

1) l’esistenza di distinti sistemi di memoria, ciascuno dei quali può essere selettivamente danneggiato: la memoria procedurale, che ci fa ricordare per tutta la vita come si fa (ad esempio) ad andare in bicicletta; la memoria semantica, costituita da conoscenze come quella che Napoleone è morto a Sant’Elena, o che il vino rosso ha più gradazione alcoolica di quello bianco; la memoria episodica, costituita dalle tracce delle esperienze che abbiamo fatto, insomma la nostra autobiografia. Così, ad esempio, possiamo non ricordare più chi siamo pur continuando a saper andare in bicicletta. è importante sottolineare che a queste distinzioni psicologico-funzionali fanno puntualmente riscontro differenze biologico-strutturali: un caso esemplare di feconda co-evoluzione  di psicologia e neuroscienza.

2) L’esistenza di una classe di cellule nervose, gli ormai famosissimi neuroni specchio, che si attivano sia quando siamo impegnati in un’azione sia quando vediamo qualcun altro eseguire quell’azione. Sebbene le implicazioni di questa scoperta debbano ancora essere chiarite in tutta la loro portata, siamo già ragionevolmente certi che questi neuroni siano il meccanismo con cui comprendiamo qual è l’intenzione soggiacente a un’azione. Capisco quello che stai facendo in qualche misura imitandoti, replicando ciò che fai. Una comprensione non intellettuale bensì corporea. 

3) L’esistenza di sei (forse sette) emozioni  universali fondamentali: felicità, tristezza, rabbia, paura, disgusto, sorpresa (più, forse, il disprezzo). Questi programmi emotivi (affect programs), come vengono chiamati, consistono in un insieme di risposte corporee caratteristiche e sistematiche (variazioni della muscolatura facciale e della postura scheletro-muscolare, attivazione del sistema nervoso autonomo ecc.), generate automaticamente  --non le possiamo controllare o inibire-- dai circuiti neuronali del sistema limbico (e specificamente dall’amigdala) in risposta a certi tipi di stimolo. Sempre in quest’ambito è forse ancora più dirompente la scoperta, dovuta principalmente ad Antonio Damasio, che le emozioni svolgono un ruolo cruciale nei processi di valutazione/decisione razionale: non è possibile separare nettamente l’elaborazione cognitiva,  intellettuale da quella emotiva.

Sono solo tre esempi tra i molti che avrei potuto fare. Sono state fatte scoperte di rilievo nei campi della percezione visiva, dell’attenzione, e della decisione (si pensi ad esempio ai lavori del premio Nobel Kahneman, insieme ad Amos Tversky). Beninteso, molti aspetti del funzionamento della mente restano avvolti dal mistero. Senza sottovalutare ciò che sappiamo, teniamo sempre presente quello (ed è molto di più) che non sappiamo.

E il linguaggio che rapporto ha con tutto ciò?

Questa è una domanda difficile, che rinvia a un grappolo di questioni ancora piuttosto controverse.

Secondo Andy Clark (che su questo punto riprende peraltro idee di Vygotsky), l’artefice primo del modello della mente estesa, il linguaggio è una  sorta di “impalcatura” esterna il cui esercizio ha riprogrammato i nostri cervelli, sviluppando nuove forme di pensiero, più astratto e seriale. L’indubbia centralità che il linguaggio riveste per l’homo sapiens sapiens non deve farci dimenticare, d’altra parte, che ci sono forme di pensiero non linguistico che precedono, logicamente ed evoluzionisticamente, il linguaggio. Queste forme di pensiero permeano tuttora la nostra vita mentale. 

In generale, le scienze cognitive sono andate nella direzione di diminuire la centralità del linguaggio per i processi di pensiero, da un lato, e di diminuire, quando non di negare del tutto, la rilevanza della cultura per il linguaggio. In una formula, il linguaggio esprime il pensiero (piuttosto che costituirlo), e alcuni aspetti del linguaggio sono universali, geneticamente determinati. Questa visione ha ribaltato il modello culturalista ed empirista (quello che Pinker chiama il “modello standard delle scienze sociali”) in base al quale le nostre capacità cognitive sono totalmente determinate dalla comunità linguistico-culturale in cui nasciamo e cresciamo. Ma mi pare di scorgere segni di un nuovo (parziale) ripensamento.

Secondo le sue ricerche dove si colloca oggi il concetto di coscienza?

Molti filosofi pensano che la coscienza si sottragga a una spiegazione scientifica per ragioni di principio. L’idea è che (semplifico) non ci possono essere leggi che ci consentano di prevedere se un organismo prova o meno sensazioni e perché le prova, cioè perché l’evoluzione ha progettato quell’organismo in modo da renderlo senziente. La maggior parte degli scienziati pensa invece che la coscienza sia l’ultima frontiera: il problema più difficile, ma non irrisolvibile. In effetti, se fino alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso la coscienza non era nelle agende degli scienziati, da una ventina d’anni a questa parte è divenuto un tema di ricerca molto frequentato.  

Io sto dalla parte degli scienziati, anche se siamo davvero solo agli inizi di queste ricerche, e il tasso di confusione concettuale è ancora molto alto. Per un filosofo c’è davvero di che divertirsi.

Il mio ultimo lavoro (Sentirsi esistere, anche questo scritto insieme a Massimo Marraffa, e uscito a metà gennaio per Laterza), forse quello con maggiori ambizioni teoriche, è dedicato al tema della coscienza, soprattutto in relazione al suo rapporto con l’autocoscienza e l’io. 

Maria Giovanna Farina 

 


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