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La nonviolenza come scelta educativa

 

 

Diventare genitori è un'esperienza che apre una cesura nella nostra storia esistenziale, ponendoci in diretta comunicazione col passato e col futuro. La domanda "chi sono?" si trova incarnata materialmente e spiritualmente nella figura del figlio, che ci rammenta di un passato, di un'infanzia vissuta, e ci apre ad un futuro, a speranze, ansie e aspettative. Essere genitori e, nel mio caso, essere madre, ci pone di fronte a delle scelte che fuoriescono dalla nostra storia di figli, scelte che implicano un notevole grado di responsabilità: la possibilità di influenzare e indirizzare la vita di una persona, altra da noi, e tuttavia legata intimamente alla nostra persona.

Essere madre è un'avventura non lineare e complessa, che attraversa fasi di unione totale col figlio, altre volte attraversa il dolore dello stacco, dal quale spesso può scaturire un conflitto con se stessi o con il proprio figlio.

Nel mio percorso di madre il confrontarsi con i conflitti è stato un tema che mi ha portato molto a riflettere. In che modo possiamo affrontare in modo costruttivo i conflitti con i nostri figli? In che modo possiamo rimanere persone e dare ai nostri figli, a loro volta, valore come persone, non sminuendoli, perché "sono solo bambini o ragazzi"? Come fare quando i nostri bisogni e quelli dei nostri figli non coincidono e si viene a creare un conflitto?

Voglio raccontarvi un aneddoto accaduto qualche settimana fa. Intorno alle 6 mio figlio Peter, 15 mesi, ha deciso di svegliarsi. Si è guardato intorno, ha fatto qualche gorgheggio e poi ha iniziato a piangere. Dal mio punto di vista tale pianto era dovuto o a fame o a sete o a stanchezza. Fame non era. Sete neanche. Stanchezza? Forse, ma il limite del non ritorno era stato sorpassato e il pianto era diventato difficile da calmare.

Il mio bisogno, invece, era quello di dormire ancora, almeno una mezzora prima di iniziare la giornata. "Adesso basta, Peter, torniamo a dormire?". Ma come essere credibili con i nostri bambini, se la richiesta che poniamo loro, viene posta con un tono di voce che si è  già alzato di qualche tono rispetto al normale?

A volte i bambini hanno solo bisogno  di "cambiare braccia", cioè avere più persone di riferimento,  per ritrovare la tranquillità, perché siamo noi che proiettiamo le nostre emozioni sui nostri bambini, che si trovano ad essere specchio dei nostri stati d'animo. C'è un libro molto bello, "Il bambino è competente", di Jesper Juul, dove questo concetto viene chiamato "cooperazione". I bambini co-operano con la situazione. Se noi siamo nervosi, perché ci aspetta una giornata di lavoro intensa, forse il nostro bimbo coopererà in modo inverso, e cioè " rendendoci la vita un inferno". D'altronde i piccoli sono spugne, capaci di assorbire la tensione.

E allora mi viene spontaneo chiedermi. Cos'è la non violenza e la comunicazione non violenta con i bimbi? Dal mio punto di vista ciò non significa mettersi delle maschere e continuare a stare calmi, quando non lo si è. Significa essere franchi ed esprimere i nostri bisogni. Questo non vuol dire che automaticamente il nostro bimbo li ascolterà. Ma ha a che fare con il porre dei limiti, delimitare il proprio territorio individuale, di persone.

Allora ho detto "Peter, quando piangi così forte per un motivo che non riesco a soddisfare, mi innervosisco molto, perché il mio desiderio è quello di dormire". E lui (per un po') si è calmato. I bimbi capiscono, o meglio, intuiscono più di quello che noi adulti pensiamo.

I quattro pilastri della Comunicazione Nonviolenta, linguaggio ideato dallo psicologo statunitense Marshall B. Rosenberg, sono:

-preferire l'osservazione dei fatti ai giudizi moralistici

-chiarire ciò che sentiamo

-esprimere i nostri bisogni e valori

-fare richieste concrete e precise per migliorare la situazione che ci sta facendo soffrire. 

È un linguaggio che ci chiede di attuare dei grandi ripensamenti rispetto al modo di comunicare a cui siamo abituati, basato sulle pretese, i doveri e i giudizi moralistici. È un modo di comunicare che richiede "cura" e rispetto verso se stessi.

Sperimentare nuove forme dello stare insieme che rispettino la nostra integrità di persone è una scelta, una scelta educativa indirizzata verso i nostri figli e verso di noi. Un educare in senso etimologico, cioè il tirare fuori, il manifestare ciò che siamo.

Gaia Palmisano

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