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La casa dell'infanzia



Era da molti anni che voleva farlo. Più volte aveva pensato di andare a vedere la casa della sua prima infanzia, infinite volte le era passato davanti riproponendosi ogni volta di varcare la soglia di quel portone, entrare nel cortile, girare a destra e salire su, su, fino all’ultimo piano, fino al luogo che aveva scandito i suoi primi anni di vita. Quel giorno lo fece, e non fu perché c’era passato davanti, no, ci era andato di proposito, aveva deciso che sarebbe entrato in quella casa. Arrivò davanti al portone, era chiuso. Attese che qualcuno entrasse, dopo pochi minuti qualcuno entrò e lui dietro. Una volta, di giorno, il portone era sempre aperto, c’era la portineria con la portinaia, la sciura Marietta, era il terrore di tutti i bambini e non, ma erano altri tempi. Dopo il portone chiuso pensava di trovare un’altra porta prima di poter accedere alla scala invece no, tutto era rimasto come allora tranne la tromba delle scale che era stata riempita da un comodo ma ingombrante e antiestetico ascensore. Preferì fare i gradini ad uno ad uno, l’uso dell’ascensore lo avrebbe privato di troppe emozioni. Iniziò la salita, ad ogni gradino le pulsazioni aumentavano e non solo per le scale, ad ogni piano si fermava e si guardava attorno come per scorgere un segno del passato. Quando, ansimante raggiunse l’ultimo piano una sorpresa doveva attenderlo: la porta dell’abbaino che infinite volte aveva attraversato non c’era più, era stata murata, non era rimasto il più piccolo ricordo dell’antico adito. Si appoggiò alla piccola ringhiera che dà sul cortile e, guardando di fronte, dall’altra parte del cortile, le porte che si affacciano sulle lunghe ringhiere, rivede per un attimo la rammendatrice del terzo piano intenta a rammendare una calza, la signora Gina che sbatte gli stracci e il vecchio signor Giulio che brontola perennemente contro tutto e contro tutti.

Il lavandino di graniglia dove la mamma lo lavava e ci si riforniva d’acqua l’avevano tolto, anche la turca in comune con altre cinque famiglie, sul pianerottolo, non c’era più, anche quella porta era stata murata.

Alla sinistra di dove una volta c’era la porta d’ingresso del piccolo abbaino avevano costruito una scala, salì i gradini di ferro e alla fine si trovò davanti tre porte. Una volta tutto finiva lì davanti alla porta del quarto piano, oltre c’erano solo i tetti. Ridiscese con attenzione la ripida rampa, diede un ultimo sguardo verso il cortile e ripensando a quando ancora abitava lì scese le scale che lo videro imparare a farle. In cortile gli echi dei bimbi che giocavano, il fragore del fabbro che batteva il ferro ancora incandescente e il cicaleccio delle comari erano presenti solo nella sua mente, neppure le lunghe file di panni stesi alle ringhiere: era diventata una caratteristica casa signorile della Vecchia Milano, di quella Milano che vive solo nei ricordi di chi c’era, di quella Milano che non c’è più.

Max Bonfanti, filosofo analista (Ottobre 2024- Tutti i diritti riservati©)

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