Linda Napolitano Valditara è Professore Associato di Storia della Filosofia Antica all’Università di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia. E’ full member della International Plato Society e socio del “Kairòs kài lògos. Centre d’Etude sur la pensée antique” di Aix-en-Provence. E’ membro eletto del direttivo della SISFA (Società Italiana per lo Studio della Filosofia Antica)
Segnaliamo il libro: Interiorità e anima, La ‘psychè’ in Platone, Linda Napolitano Valditara, ( Milano, Vita e Pensiero 2007)
Prof.ssa Napolitano lei è una studiosa di filosofia antica, ma si pone anche come studiosa della filosofia come cura dell’anima. Cosa l’ha spinta in questa direzione?
Mi occupo di filosofia antica da 36 anni, prima ancora di laurearmi all’Università di Padova. Già allora, in tempi non sospetti rispetto all’emergere della ‘consulenza filosofica’ (di cui Achenbach ha parlato solo all’inizio degli anni ’80), pensavo che i miei autori (Socrate, Platone, Aristotele, Epitteto, Marco Aurelio, Seneca, Epicuro) non meritassero uno scavo solo erudito, ma che la loro fosse – pur con differenze e scarti - la proposta di una filosofia per la vita, di una cura dell’anima appunto, proficuamente recuperabile anche oggi. Le riflessioni, risalenti ai due decenni successivi, di Michel Foucault e Pierre Hadot (ma, per esempio, già prima del boemo Jan Patočka) leggono il pensiero antico nello stesso esatto senso. Questa visione della filosofia antica andava e va, certo, in controtendenza rispetto alla prassi accademica corrente, soprattutto italiana. Ma la mia formazione specifica di ‘antichista’ va in controtendenza anche rispetto al recupero di questi autori (almeno del ‘maestro’ Socrate) oggi coralmente attuato da chi si occupa di ‘pratiche filosofiche’. Non credo infatti basti condurre, su questi temi ed autori, lo studio generico, superficiale e di seconda mano di cui spesso si accontentano gli interessati al counselling. Per comprendere davvero questi testi antichi, occorre conoscerli a fondo, continuare a leggerli al massimo livello scientifico possibile e nelle lingue originali in cui sono stati scritti (il greco ed il latino). Ma, ora, la ristrutturazione universitaria del Ministro Gelmini ‘cassa’ l’ambito di Storia della filosofia antica come settore disciplinare autonomo, facendolo riconfluire in quello di Storia della filosofia generale: ciò significa riunire nello stesso fascio tutte le erbe filosofiche, dal V secolo a.C. ad oggi, e quindi indurre una sempre minore competenza ad affrontare i testi filosofici antichi nel modo scientifico adeguato. Viceversa proprio noi filosofi antichisti italiani (al momento meno di 50 docenti ufficiali della materia) abbiamo ancora una preparazione che ci rende noti e apprezzati a livello internazionale e che potrebbe esser spesa anche per i giovani studiosi, italiani e stranieri, interessati al campo. In questo campo scientifico l’Italia potrebbe giocare in attacco, con ottime ricadute non solo culturali, ma economiche, con la creazione di centri di studio di eccellenza, non poi così cari da allestire, che attirino studiosi stranieri in Italia. Chi ci governa sembra, però, ignorarlo del tutto o, se lo sa, non essere per nulla interessato ad ‘un’attività d’impresa’ in questo campo, mentre io conoscevo come fondamentale regola economica (non culturale) ‘vendere’ e promuovere anzitutto ciò che di buono si ha e si sa fare.
Da esperta conoscitrice del filosofo Platone, può dirci come egli può aiutare gli uomini del terzo millennio nelle problematiche quotidiane?
Non solo io credo che Platone, se letto correttamente e non attraverso le banalizzazioni e i fraintendimenti diffusi e correnti, abbia moltissimo d’interessante ed utile da dirci. Già Hans Georg Gadamer ha scritto, nel 1993, di tenere in gran conto i suoi pensieri, che consigliava vivamente di leggere “a tutti coloro che vogliono comprendere a ciò che sembra mancare nel mondo della scienza moderna”. Ciò, secondo Gadamer, perché l’uomo “costruisce la sua vita attraverso la sua facoltà di aver cura” e perché Platone è colui che, dopo Socrate e prima di Heidegger, ha dato forma, sostanza, specificità ad un’antropologia e ad un’etica della cura dell’anima. E’ questo ciò che l’Occidente ha, oggi, del tutto perso, che è alla fonte di tutta una serie di difficoltà esistenziali e relazionali che fanno soffrire ed angosciano noi tutti. Non credo certo, banalmente, come Lou Marinoff, che “Platone sia meglio del Prozac”. Credo che i suoi testi indichino una strada possibile, per chi non si accontenta dei fini correnti del successo, del possesso e dell’apparenza, per chi voglia guardarsi dentro e scoprire un modo diverso dell’esistere, più naturale e ricco, per chi non crede che sia la tecnologia a poter risolvere tutti i nostri problemi e a renderci felici, sicuri ed eterni.
Mi affascina molto il suo interesse per la malattia, ci può raccontare qualche soddisfazione che ha ricevuto parlando agli operatori sanitari durante i suoi convegni?
Non ho cercato io la collaborazione extra-accademica con gli operatori sanitari: sia gli amici medici ed infermieri dell’Azienda Sanitaria n. 5 Bassa Friulana, coi quali collaboro ormai da anni, sia quelli della Società Italiana di Endoscopia Chirurgica hanno richiesto loro la mia presenza, ai loro congressi, nei loro seminari, per la loro formazione. Gli operatori della sanità sono coloro che si ritrovano ‘col cerino acceso in mano’, loro passato da chi non vuol più sentir parlare di fragilità, malattia, invecchiamento, dolore fisico e morte, da chi – diseducato da un sistema massmediatico ingannevole e martellante - non reputa più né sa accettare questi tratti come strutturali della nostra vita, della vita umana. Dagli operatori della sanità e dalle loro tecnologie ci si aspetta la soluzione a questi problemi, ci si aspetta non di essere ‘curati’, ma di essere, sempre, ‘guariti’, anche dalla vecchiaia e dalla morte. Mentre vi sono mali che non sono malattie da cui guarire, ma aspetti strutturali della vita di cui occorre, come sempre in passato si è fatto, saper comprendere ed accettare il senso. Dagli operatori della sanità, dai loro dubbi, dai loro carichi, dalle loro angosce, ho imparato moltissimo: loro mi hanno insegnato il senso del limite, pur con strumenti tecnologici raffinatissimi, l’essenzialità di certi problemi e di certi carichi, il lavoro umile di portare la mia filosofia ‘fuori dall’accademia’, d’imparare a comunicarla anche a chi non ha una preparazione specifica. Mi hanno insegnato la bellezza ed utilità della costruzione di una ‘comunità di cura’ (una bella espressione della mia collega veronese Luigina Mortari), in cui confluiscano e cooperino professionalità diverse.
Da consulente filosofica (il cosiddetto counselor filosofico), le chiedo cosa può differenziarci veramente da altri “curatori dell’anima”?
La filosofia non è - non è mai stata - una cura ‘terapeutica’, non intende guarire malattie o recare sollievo semplicemente nell’alleviarne i sintomi. Essa affronta ciò che, certo, fa soffrire ognuno di noi (soprattutto la coscienza di una vita destinata a finire), ma cercandone il senso profondo, autentico, strutturale alla vita umana stessa. Essa si chiede quale sia il senso della sofferenza connaturata alla nostra vita, quale sia la visione autentica della vita umana che motiva la presenza di quella sofferenza e quale bellezza del vivere umano possa – semmai - bilanciare quella sofferenza, rendendola comunque degna, anch’essa, di esser accettata e vissuta. Questo la filosofia – in Occidente e in Oriente! - lo fa da 2000 anni: nessuna delle discipline, delle psicoterapie nate solo nel XIX secolo, sa fare o intende fare la stessa cosa, poiché la visione dell’essere umano che sta alla loro base, come la loro concezione della ‘cura’, è del tutto diversa.
A suo parere su quale argomento dobbiamo insistere per “convincere” che la filosofia come madre di tutte le scienze può salvarci dalla perdita di una esistenza all’insegna dell’Eutimia?
Eutimia, che tradurrei ‘benessere interiore’, è il termine che Democrito, padre dell’atomismo greco, avrebbe usato per indicare l’obiettivo delle sue riflessioni antropologiche. E’ l’equilibrio interno, la signoria di sé, il conoscersi a fondo, senza autoinganni, il governare gli stati emotivi bassi o negativi, lo star bene con se stessi e con gli altri, l’amore per la vita umana com’è, senza deliri di possesso o di onnipotenza. I miei studenti ventenni, all’Università, le persone di qualunque sesso, età, formazione a cui porto, fuori dall’Università, questi discorsi, adorano questa prospettiva, se ne innamorano, perché nessun altro mai gliene parla, nessun altro gli propone qualcosa di simile. Gli stessi psicologi spesso ritengono utile ed interessante aggiungere alla loro una prospettiva filosofica di questo genere. Si tratta di provare: l’argomento, appena noto, funziona da sé e funziona sempre, lasciando fra l’altro ognuno libero di gestirlo come meglio gli aggradi, quando e come gli piaccia, di adattarlo a se stesso e alla propria storia. Quale altra ‘cura’ funziona semplicemente con un libro e una matita in mano e un po’ di tranquillità, di silenzio e di tempo per sé? E questi testi sono, fra l’altro, bellissimi, intensi, toccanti, coinvolgenti: c’è stato forse un momento e un tempo in cui si sia avuto un bisogno altrettanto forte e altrettanto disatteso di vera bellezza? MGF |
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