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Biopolitica, cura di sé, cura del mondo

Intervista a Ottavio Marzocca

 

 

Professor Marzocca, di cosa parliamo quando parliamo di biopolitica e che cosa ci può insegnare questo concetto?

Quello della biopolitica è un tema del quale si discute moltissimo da circa un ventennio. Attorno ad esso si è sviluppata, in un arco di tempo relativamente breve, una letteratura sterminata alla quale hanno contribuito studiosi di diverse aree disciplinari (e geografiche), fra i quali spiccano filosofi italiani come Giorgio Agamben, Roberto Esposito e Antonio Negri.

Il termine biopolitica era stato usato già  negli anni Venti-Trenta e poi nuovamente a partire dagli anni Sessanta del Novecento per analizzare la società come “organismo vivente” o per porre in evidenza l’influenza, vera o presunta, che su di essa esercitano i fattori biologici, nell’intento – in entrambi i casi – di consentirne un governo o uno sviluppo in accordo con le “leggi” della vita.

Il concetto è stato usato in tutt’altro modo dal momento in cui Michel Foucault lo ha trasformato in uno strumento di riconoscimento genealogico e critico delle strategie politiche che, nella storia moderna dell’esercizio del potere, hanno assunto esattamente la vita della collettività e degli individui come proprio oggetto principale. Dal punto di vista di Foucault, la biopolitica va intesa come l’esplicazione di un bio potere e, al tempo stesso, come il terreno sul quale si esprimono tentativi di sottrarsi ad esso. Il filosofo francese concentrò le sue ricerche sulla biopolitica in alcuni momenti chiaramente individuabili del suo percorso e per questo è estremamente agevole rendersi conto della precisione con cui egli usò questo concetto. Per lui, innanzitutto, si dà  biopolitica solo nella modernità. Non si può parlare propriamente di biopolitica, o di biopotere, nel caso di altri momenti della nostra storia. Il fatto che la vita, in un modo o nell’altro, sia stata un ‘bersaglio’ del potere anche in altre epoche non significa che una biopolitica sia sempre esistita; significa piuttosto che la possibilità di “dare la morte” è sempre stato uno strumento del potere e, in particolare, di quello che si impone come “sovrano”, che in quanto tale può darsi anche come “potere di vita o di morte”. Ma in casi simili si può parlare di tanato-politica, non di bio-politica.

La biopolitica, viceversa, è quell’insieme di strategie che vengono promosse dal momento in cui questioni come la natalità, la mortalità, la salute, il benessere, la forza della popolazione (in quanto specie vivente) e degli individui (in quanto organismi) divengono problemi fondamentali per il governo (più che per l’esercizio della sovranità) dello Stato. Il che accade, grosso modo, dal momento in cui le potenze statali europee accedono alla modernità competendo fra loro non soltanto sul piano della forza militare, ma anche, e sempre più, sul terreno della potenza economica; per cui esse cominciano a garantirsi questa potenza amministrando e facendo crescere sistematicamente la forza vitale e produttiva del loro “corpo politico”, ossia della popolazione. Di qui il rilievo che, almeno dal XVIII secolo, assume l’attenzione politica alla produzione di beni di prima necessità, alle condizioni igienico-sanitarie delle città, ai rischi di diffusione delle malattie e poi anche all’abilità fisica e psichica delle persone, ecc., problemi dei quali in un primo momento si occupa la “polizia medica” (o la “polizia” in genere) e che successivamente verranno trattati con approcci variabili come questioni di “sicurezza”, secondo i diversi significati che a questo termine saranno attribuiti.

In una simile cornice certamente devono essere collocate anche le forme specifiche che nella modernità ha assunto e continua ancora ad assumere ciò che ho chiamato tanato-politica: proprio perché la società moderna è oggetto di strategie biopolitiche, può accadere che la sua “salute” e la sua “sicurezza” vengano perseguite attraverso politiche di discriminazione e persino di sterminio dei soggetti sociali che vengono percepiti come un “pericolo”, come fattori di “degenerazione” o di “indebolimento” del corpo collettivo.

Per Foucault è molto improbabile che nella nostra società possa darsi una biopolitica estranea o totalmente alternativa al biopotere; né pare valga la pena di assumere la vita, in quanto insieme di processi biologici e ‘forze vitali’, come risorsa decisiva per un riscatto o una liberazione politica. Dal suo punto di vista, beninteso, tutto questo può rivelarsi opportuno, ma le possibilità di costruire una propria indipendenza dalle varie forme di biopotere (e di potere in genere), gli uomini devono cercarle innanzitutto in una pratica etica della libertà, più che in una “biopolitica alternativa”.

Da parte mia, credo che quest’impostazione della questione sia la più adeguata anche rispetto ad altre impostazioni più recenti e apparentemente più radicali. Perciò credo si debba evitare di intendere la biopolitica come ambito in cui far rientrare, da un lato, qualsiasi forma di potere che venga esercitata sull’esistenza umana genericamente intesa e, dall’altro, qualunque impulso, tensione o movimento che faccia leva sulla presunta potenza liberatoria della vita stessa.

Michel Foucault si è occupato del rapporto dell’uomo con il sapere, con il potere e con gli “altri”. Cosa è cambiato e cosa è rimasto delle sue ricerche in proposito?

In uno scritto considerato da molti come il suo “testamento”, negli ultimi anni della sua vita Foucault sentì il bisogno di spiegare le ragioni per cui si era occupato tanto intensamente del potere. Fu quella l’occasione per sottolineare l’importanza che aveva avuto fin dall’inizio del suo lavoro la relazione fra sapere, potere e forme di soggettività. Sorprendendo in un certo senso i suoi lettori, egli affermò pure che in realtà il tema principale delle sue ricerche non era il potere, ma il soggetto, ossia il terzo dei tre termini della relazione. Comunque, il titolo che diede a quel testo è particolarmente chiaro in tal senso: Perché studiare il potere: la questione del soggetto (1982).

L’affermazione sulla centralità del soggetto apparve sorprendente soprattutto perché Foucault aveva sempre avuto la fama di anti soggettivista. Infatti l’importanza che attribuiva al soggetto in quel momento andava intesa in un senso molto preciso e, se era forse il frutto di un “ripensamento”, questo non riguardava tanto il suo “anti-soggettivismo”, quanto il senso complessivo della sua esperienza filosofica, come se finalmente gli fosse del tutto chiaro.

Foucault in quel testo riassumeva i tre percorsi principali che avevano segnato la sua esperienza nei termini seguenti: il primo aveva riguardato i modi in cui nella modernità certi saperi hanno assunto gli uomini come oggetto di indagine, pensandoli come soggetti parlanti, soggetti produttori, soggetti viventi (si riferiva in tal senso alle scienze filologiche, economiche, biologiche e, indirettamente, alle scienze umane); il secondo percorso aveva riguardato i modi in cui i vari poteri e bio-poteri hanno assoggettato gli uomini moderni definendone le forme di soggettività mediante la divisione tra folli e normali, sani e malati, “bravi ragazzi” e criminali; il terzo percorso, infine, era quello concernente i tentativi che nella nostra storia gli uomini hanno compiuto per costituirsi come soggetti relativamente autonomi, cercando di elaborare un proprio ethos, di acquisire una capacità critica e una padronanza di sé, ossia di “governarsi” per non restare totalmente alla mercé del “governo” così come si dà normalmente.

Quest’ultimo era il percorso che in quel momento interessava maggiormente a Foucault e che lo spinse, fino agli ultimi mesi della sua vita, a ricercare soprattutto nell’antichità greco-romana i modi di soggettivazione che rispondessero meglio all’idea di una pratica etica della libertà da far valere sia nei confronti dei saperi che tendono a oggettivare la soggettività degli uomini definendola secondo criteri di normalità/anormalità, sia nei confronti dei poteri che tendono a formare in modo eteronomo questa soggettività governando e normalizzando la vita e i comportamenti degli individui. Foucault ritenne, appunto, che dei modi di soggettivazione di questo tipo fossero rintracciabili nelle varie esperienze di cura di sé e di coraggio della verità degli antichi (i suoi riferimenti principali erano Socrate, gli Stoici e i Cinici).

Malgrado la lontananza storica di tali riferimenti, forse è proprio con questo percorso che il filosofo francese ci ha offerto gli strumenti più utili a mettere a fuoco certi problemi cruciali della nostra attualità. Mi riferisco soprattutto alla nostra incapacità di concepire e di praticare la nostra libertà, se non all’interno dei “parametri” del mercato, del governo economico della società e dei relativi saperi/poteri. A me pare questa la ragione profonda dell’egemonia etica, ancor più che politica e culturale, che il neoliberalismo (cui Foucault non mancò di rivolgere la sua attenzione) ha ormai conquistato stabilmente, malgrado la vertiginosa spirale di crisi politiche, economiche ed ecologiche, in cui esso ci trascina con impressionante regolarità da qualche tempo. 

In base a tutto questo ragionamento, se dovessi dire chi sono gli “altri” da un punto di vista foucaultiano, direi che sono coloro che sfuggono o resistono ai vari “parametri” della normalità, rischiando però di essere stigmatizzati, di perdersi nella marginalità sociale, di restare schiacciati dal gioco fra “normalità” e “normalizzazione”, al quale – stando a Foucault – nella nostra società occorre adeguarsi per essere riconosciuti come “soggetti”.

Recentemente, nelle Sue ricerche si manifesta un forte interesse per il rapporto dell’uomo con l’ambiente. Che cosa ci può dire a questo riguardo?

La questione ambientale oggi rischia di divenire uno dei terreni principali dell’esercizio di nuove forme di biopotere. Con questo intendo dire innanzitutto che la stessa cultura ecologica si presta a trasformarsi in una biopolitica, nella misura in cui richiede ai governanti un’attenzione politica, da un lato, alla vita degli uomini e, dall’altro, all’intera biosfera, in quanto messe in pericolo dal degrado dell’ambiente. Quest’attenzione sembra potersi trasformare in una totale dipendenza della società da una sorta di potere eco-cratico dominato dagli esperti dell’“impatto ambientale” e della “sostenibilità”, un potere tendenzialmente sovranazionale e sempre più distante dalle esperienze che le comunità concrete fanno del degrado dei luoghi in cui abitano e della necessità di convertirsi a modi di vita più sobri. In questo senso mi pare possano essere interpretate le politiche ambientali promosse mediante le varie direttive europee sull’ambiente o le conferenze mondiali sul clima. Sappiamo bene, d’altra parte, che molte di queste politiche restano sulla carta o prive di effetti apprezzabili; il che ovviamente rende ancora più preoccupante la perenne crisi ecologica in cui viviamo. Ma non è meno preoccupante, secondo me, il fatto che, continuando ad affidarci a una governance meta-territoriale – più attenta al mercato mondiale (e, nei casi migliori, al business della green economy) che agli ecosistemi locali e globali – perdiamo la possibilità di vivere e di cambiare il nostro rapporto col mondo a partire dai luoghi concreti che abitiamo e dall’esistenza immediata che conduciamo. Anche per questo oggi la politica ambientale che finisce per prevalere è quella della gestione “a cose fatte” delle emergenze rifiuti, delle conseguenze delle alluvioni, dei dissesti idrogeologici, del consumo di suolo, dei disastri nucleari, dell’inquinamento del mare, ecc.. In questo modo, evidentemente, la biopolitica ecologica non può che sconfinare in una specie di tanato-politica del giorno dopo. Non è necessario essere degli inguaribili apocalittici per rendersene conto, soprattutto nel nostro paese.

Che cos’è per Lei la cura di sé dal punto di vista filosofico?

Pierre Hadot, il grande storico della filosofia antica ai cui studi in gran parte Michel Foucault si ispirò nelle sue ricerche sulla cura di sé, da parte sua manifestò forti perplessità su questo concetto.  Egli sostenne che Foucault, riconducendo ad esso le esperienze etiche più significative del mondo greco-romano, avesse incentrato troppo sulla dimensione del “sé” la sua interpretazione di quelle esperienze; Hadot ritenne inoltre che, definendo la cura di sé come un’estetica dell’esistenza, il filosofo francese avesse rischiato di trasformarla in una sorta di dandysmo estetizzante.

Da parte mia, sono convinto che alla base di queste osservazioni critiche ci fosse un atteggiamento un po’ troppo scolastico e una certa indisponibilità a comprendere il significato complesso che Foucault attribuiva alla cura di sé. Certamente, però, quando Hadot espresse le sue valutazioni (1988), non aveva a disposizione l’enorme mole di materiali (rimasti inediti fino a pochissimi anni fa) che Foucault aveva prodotto attraverso le ricerche svolte per i suoi Corsi sul rapporto tra filosofia ed etica nell’antichità. Il significato tutt’altro che “individualistico” o “solipsistico” della cura di sé, che già si poteva cogliere chiaramente nei suoi due ultimi libri, in quei materiali diviene lampante. Lì inoltre diviene del tutto chiara la centralità della relazione tra la cura di sé e la filosofia intesa come forma di vita, più che come attività di studio sistematico o di semplice insegnamento. Proprio a questo riguardo – non soltanto per Foucault, ma anche per me (si parva licet...) – ha un’importanza decisiva la distinzione, sulla quale ha sempre insistito Hadot, tra il “discorso sulla filosofia” e la “filosofia stessa come modo di vivere”.

Ora, la cura di sé, da questo punto di vista, è una forma di esistenza che ha nella vita filosofica la sua espressione esemplare. Se essa si concentra sul “sé”, non è per staccarlo dalla realtà circostante, ma al contrario per coglierne più nettamente l’immersione nel complesso intreccio di relazioni che esso intrattiene con il mondo degli uomini e della natura. Lo sforzo costante di collocare il sé nella complessità, che definirei ecosistemica, del mondo artificiale e naturale è un modo di vivere filosofico che trasforma il sé convertendolo a un’attitudine etica virtuosa e rispettosa di questa stessa complessità. A tale riguardo – dopo la pubblicazione degli ultimi Corsi foucaultiani – è possibile riscontrare una convergenza sostanziale fra il pensiero di Foucault e quello di Hadot, soprattutto per l’importanza che entrambi attribuiscono all’esperienza degli Stoici.

È il caso però di sottolineare gli esiti ai quali giunse Foucault, da parte sua, nel tentativo di valorizzare la filosofia come modo di vivere. Nei due Corsi tenuti prima della sua morte, egli ne rintracciò l’espressione più significativa nel coraggio della verità di Socrate e dei Cinici: la vita filosofica si presentava così come la pratica etica di chi dice la verità a chi governa e a chi aspira a governare, denunciandone le finzioni e le mistificazioni non per migliorare l’efficacia dell’esercizio del potere, ma per richiamare tutti alla necessità di governare  se stessi e di far buon uso della propria libertà, prima di pretendere di governare gli altri.  

Da parte mia, non sono sicuro che la filosofia oggi abbia ancora questa forza e questa capacità. Ma, in fondo, il problema non è tanto quello di ridare un ruolo alla filosofia, quanto quello di rigenerare la pratica etico-politica della libertà come coraggio di “dire la verità” sia ai governanti che ai governati, per non lasciarsi governare come capita e per vivere di conseguenza. 

I compiti che la filosofia può assumersi da questo punto di vista sono, innanzitutto, quello di liberarsi dalla deriva accademica di cui è vittima e, in secondo luogo, quello di sottrarsi al rischio di ridurre il suo “discorso pubblico”  a mera conversazione mediatica.  

Maria Giovanna Farina

*Ottavio Marzocca insegna Filosofia etico-politica ed Etica sociale all’Università di Bari. Ha pubblicato studi sul pensiero francese contemporaneo, sulla geofilosofia e sul neo-marxismo italiano. Da alcuni anni dedica particolare attenzione ai temi foucaultiani della biopolitica, della governamentalità e del “governo di sé e degli altri”. Attualmente, inoltre, si occupa delle relazioni tra le forme della politica e il mondo come spazio, territorio e ambiente. Fra le sue ultime pubblicazioni: Il governo dell’ethos. La produzione politica dell’agire economico (Mimesis, Milano 2011).

Per informazioni ulteriori: Ottavio Marzocca   


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