Il male in filosofia
Michele Martelli si è laureato in Filosofia nel 1964. Diventato docente nell’Università di Urbino negli anni Settanta, ha insegnato Filosofia della storia. Ora è docente di Filosofia Morale e direttore del master interfacoltà «Management etico e Governance delle Organizzazioni». Collabora con la rivista Micromega. Il professor Martelli si è occupato di filosofia politica e della storia, e in particolare di questioni relative al bilancio storico e teorico del Novecento. Ha condotto una ricerca sul problema del male nel Novecento, indagato sotto l'aspetto teologico, politico e tecnologico. Frutto di questa ricerca è il volume Il Secolo del Male. Ha scritto numerosi libri di successo.
Prof. Martelli, pensando a Socrate che riteneva il male una questione di ignoranza e a sant’Agostino che lo riteneva un’assenza di bene, lei come considera queste due posizioni? Dal mio punto di vista Socrate aveva ragione, il male è frutto di ignoranza purché per male e per bene non si intendano valori assoluti, ma relativi, storici, contingenti, frutto di convenzioni umane e in quanto tali, come ho spesso scritto nei miei ultimi libri, rivedibili e migliorabili. Quindi sono d’accordo con questa famosa affermazione attribuita a Socrate e che ricaviamo dai dialoghi platonici. Può spiegarci come lei intende questa questione? Se vediamo il bene come un valore relativo e lo intendiamo non in senso metafisico, ma nel senso epicureo del vantaggio personale e collettivo che viene fuori da una sorta di calcolo dei piaceri o dell’utilità (termine, quest’ultimo, da riferire non alla ricerca smodata ed egoistica dell’avere, bensì a tutto ciò che riguarda la cura, la conservazione e l’accrescimento del proprio essere, che però dall’avere, dalla ricchezza socialmente prodotta e dalla sua equa distribuzione non può ovviamente del tutto prescindere: un Erich Fromm, rivisto, per così dire, e corretto con Marx), questo calcolo, dicevo, non giungerà mai a risultati definitivi e incontrovertibili (ce lo insegna l’utilitarismo etico di Jeremy Bentham e John Stuart Mill, il cui principio guida era: “la massima felicità possibile per il maggior numero possibile di persone”, dove il “possibile” è un criterio empirico, regolativo, per armonizzare bene privato e bene pubblico). Sarà sempre discutibile e tuttavia avrà un suo valore di condivisione sempre maggiore, a patto che non si usi la violenza ma il dialogo, il dialogo socratico, concependo e trattando l’altro in modo paritario, senza pretese di superiorità sull’interlocutore: altrimenti, non sarebbe dialogo, ma un mezzo di sopraffazione dell’altro, o, nella migliore delle ipotesi, un dialogo tra sordi. Se sappiamo riconoscere, attraverso l’educazione, la formazione scolastica, culturale e civica, qual è il nostro vantaggio e come il nostro vantaggio implichi il vantaggio di tutta la società in cui viviamo e, allargando il nostro orizzonte, dell’umanità intera, allora è giusto affermare, come diceva Socrate, che chi fa il male è un ignorante. È ignorante perché non conosce il proprio vantaggio e non conosce quanto esso dipenda dal vantaggio degli altri. Potremmo estendere il discorso ai diritti umani. Far del male agli altri diventa un boomerang contro se stessi. Va bene, è questione di ignoranza, ma non potrebbe essere una via d’uscita comoda di chi afferma: “Va beh, io non so le regole allora chi se ne importa, faccio quello che voglio”. È vero che poi ti si ripercuote contro, ma non subito. Ci sono esempi di chi fa quello che vuole a spese degli altri… Questo calcolo dei vantaggi non ha di necessità conseguenze soltanto immediate, bisogna anche pensare alle conseguenze future delle nostre azioni (penso all’etica della responsabilità per le generazioni future di Hans Jonas). Immediatamente è possibile che io abbia un vantaggio ad agire in modo del tutto egoistico, ma farò lo svantaggio dei miei figli e dei figli dei miei figli … E Agostino? Io non sono d’accordo con Agostino, il quale ritiene che il male sia assenza, privazione di Dio. Egli distingue male fisico, male metafisico e male morale. Ma il male metafisico, che egli riferisce al creato, cioè all’universo in quanto imperfetto, non esiste. Semmai, nella teologia creazionistica, l’universo sarebbe da considerare un bene, in quanto proviene da Dio. Il male fisico per Agostino dipende invece dal peccato originale; Adamo ed Eva col peccato corrompono la perfezione delle creature e nel mondo creato entra morte e sofferenza. Al di là della mitologia biblica adamitica, ormai scientificamente confutata da Darwin, direi che il male fisico esiste semplicemente perché tutto ciò che esiste è imperfetto. Perfetto in assoluto non c’è niente, secondo quanto ci risulta finora dalla nostra esperienza. Anche il male morale in assoluto non esiste, perché ogni società ha la sua concezione del male. Per concludere il discorso, posso affermare che il male morale è ciò che noi facciamo di sbagliato per noi e per gli altri, qui, nel nostro mondo, l’unico che conosciamo, all’interno della situazione data, che consente un ventaglio limitato di scelte; Il libero arbitrio, se inteso come assoluta libertà di scelta tra bene e male, e cioè tra obbedire o disobbedire ai comandamenti di Dio, non esiste, perché di Dio o del divino o dei suoi presunti comandamenti, non sappiamo né possiamo sapere alcunché (preciso che la mia posizione è agnostica, non ateistica). Nel suo libro Il secolo del male ed. Manifestolibri lei affronta il tema del male e del suo significato nel mondo, di come si può tentare di comprendere questa presenza ingombrante. Ha già risposto a questa domanda: cosa aggiungerebbe? Aggiungerei che non è una presenza ingombrante nel senso di qualcosa che ha una sua autosussistenza, su cui e con cui dobbiamo fare i conti, che ci travolge, ecc. Il male non è un’entità in sé, la demonologia, così come la teologia, è scientificamente improponibile e indimostrabile. Ma cosa diciamo a chi chiede perché c’è il male? Dobbiamo rispondere che noi viviamo nel mondo della finitezza, siamo esseri contingenti, fragili, vulnerabili (lo troviamo scritto anche nell’art. 8 della Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani dell’Unesco, 2005), siamo vanità, vanitas, inconsistenza, come dice il biblico Qohélet. Anche il buddhismo afferma che il mondo è impermanente, non permane. Quindi anche il male è una realtà impermanente, fuggevole, relativa alla nostra contingenza, imperfezione e condizione esistenziale, così come lo è di ogni cosa esistente; perciò va accettata con serenità (vedi il “quadrifarmaco” di Epicuro). E poi, bene e male sono reciprocamente convertibili, a seconda delle differenti prospettive. Può fare un esempio? Ciò che è male per noi è bene per il batterio, e viceversa. In natura non c’è il bene e il male in assoluto. Pensiamo al topo e al gatto: ciò che per il topo è male (essere divorato dal gatto) per il gatto è bene (divorare il topo). Nel suo libro parla di eventi tragici: in che modo Auschwitz ed Hiroshima possono essere assunte come simboli del Novecento? Non si può dire che il Novecento sia stato tutto e solo “male”, nel Novecento ad esempio sono avanzati i diritti umani, si è consolidato in occidente il sistema democratico. Tuttavia, i due eventi di Auschwitz e Hiroshima possono essere assunti a simboli negativi di questo secolo. Simbolo di cosa? Di ciò che può fare l’uomo utilizzando la scienza e la tecnica per distruggere se stesso e la natura circostante, la biosfera. Ho usato questi due simboli per dire che la tecnoscienza può essere un mezzo di autodistruzione dell’uomo e del suo ambiente di vita, invece di essere, come potrebbe e dovrebbe, un mezzo di sviluppo e progresso della civiltà umana. Il male commesso nelle stragi che lei che ha raccontato non è certamente stato commesso per ignoranza Qui si tratta di scienza, altro che ignoranza! Il male è fatto in modo cosciente, razionale. C’è un rapporto tra mezzo e scopo. Costruisco la bomba atomica perché deve essere usata per la distruzione, in quel caso specifico, di città intere. Debbo usare l’eugenetica e la medicina per trovare i mezzi idonei ad eliminare il più presto possibile la “razza ebrea”, quindi mezzi finalizzati alla distruzione dell’altro. Siamo tutti figli ed eredi di Eichmann se non riflettiamo su quello che è successo nei campi di sterminio nazisti; allo stesso modo, siamo tutti figli ed eredi di Eatherly, il pilota di Hiroshima che diede l’ordine di sganciare la bomba non sapendo che cosa faceva. Quando tornò a casa e si rese conto di ciò che aveva ordinato di fare, cadde in uno stato confusionale tale da dare segni di pazzia; si sentiva talmente in colpa da fare le cose più strane e trasgressive pur di essere in qualche modo condannato: tanto forte sentiva il bisogno di punizione per la sua colpa. La tecnoscienza di cui parlo nel libro ruota intorno alle tesi di Günther Anders, che in Italia è un filosofo poco conosciuto, ma è molto interessante. Egli sostiene che noi uomini dobbiamo imparare a non obbedire all’imperativo categorico della tecnica: “ciò che si può si deve fare”. La tecnica ci dà la possibilità di fare cose che non riusciamo nemmeno ad immaginare; così diventiamo un accessorio della macchina, o veri e propri apprendisti stregoni. Occorre dunque imparare ad usare la potenza delle macchine che costruiamo, tenendone sotto rigoroso controllo gli aspetti negativi e le capacità distruttive. Già agli inizi della modernità il filosofo inglese Francesco Bacone scriveva, nella Nuova Atlantide, che gli scienziati della sua isola utopica avevano deciso di non mettere tutte le loro scoperte a disposizione dello Stato, perché alcune potevano essere dannose per l’umanità. Ritengo la filosofia, intesa come riflessione filosofica, un utile rimedio contro le difficoltà del vivere, cosa ne pensa? Può essere un utile rimedio se utilizziamo la filosofia come saggezza, come capacità di riflettere sulle condizioni della nostra vita individuale e collettiva, migliorando il nostro benessere, la nostra felicità relativa intesa come stare e agire bene (eupraxìa, dicevano i greci), sempre nel rispetto della vita, della libertà e della dignità degli altri. La filosofia come pura epistemologia serve a poco. La filosofia che diventa specialismo tradisce se stessa. Vorrei suggerire un concetto tratto dalla lettura di Sesto Empirico, il famoso filosofo scettico dell’antichità, cioè la metriopatia (da metrios = misurato, moderato, e pathos = passione), secondo cui l’uomo saggio è colui che tende non a sopprimere le passioni (apatìa), il che è impossibile perché le passioni, negative o positive, fanno parte di noi, bensì a misurarle, ossia soppesarle, limitarle, indirizzarle, controllarle con l’uso della ragione. Direi, metriopatia come esercizio di automoderazione e autocontrollo razionale delle passioni. I filosofi antichi hanno davvero detto tutto … È da anni che insegno filosofia e più leggo i filosofi antichi e più trovo delle cose straordinarie, in pochi aforismi dicono tutto. Sempre nel considerare la filosofia utile per una “buona vita”, vorrei aggiungere che non bisogna ritenere la vita personale separata da quella sociale. L’“uomo buono”, quello che si occupa del proprio vantaggio (nel senso pieno sopradetto) senza metterlo in contrasto col vantaggio degli altri, è anche il cittadino buono, ossia il cittadino democratico che rispetta la libertà e i diritti altrui. Oggi non puoi isolarti perché è tutto socializzato (dal lavoro al divertimento, dall’istruzione alla salute). Siamo tutti collegati Sì, oggi, più di ieri, voler essere e rimanere isolati è un’impresa assurda, irrealizzabile. Persino Epicuro, in età alessandrina, diceva che bisogna interessarsi della politica per imparare a neutralizzare ciò che di negativo c’è in essa. Oggi la filosofia, più efficacemente di ogni altro sapere, aiuta a meglio avvicinarsi alla politica, e quindi a promuovere e potenziare una cittadinanza democratica attiva e consapevole, in quanto in ognuno di noi sviluppa al meglio il senso critico, la capacità di riflessione e l’autonomia individuale. Maria Giovanna Farina Per entrare in contatto con Michele Martelli e conoscere i suoi libri: www.michelemartelli.blogspot.com
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