Herman Hesse, La cura, (1925)
suggerimenti di pratica filosofica
Il libro racconta la pausa di due settimane nella vita di un intellettuale che aspira alla saggezza, ciò lo spinge – attraverso piccoli fatti in apparenza irrilevanti – a dubitare di sé: quell’intellettuale è lo stesso Hesse che ironizza sulla propria persona durante un soggiorno termale a Baden. Il conflitto che emerge dal racconto, in chiara natura introspettiva, è pretesto per costruire una delle sue più perfette parabole, La cura appunto. Qui si ‘smonta’ un illuminato occidentale troppo sicuro di sé, che viene messo in crisi da piccoli incidenti quotidiani – e da ciò è condotto a rivedere certe sue convinzioni troppo tranquille. Bellissima la figura dell'olandese che da ossessionante presenza diventa disagio della perdita. La relazione, senza che mai i due si conoscano, con questo personaggio della stanza di sopra diventa il pretesto per elaborare le difficoltà del vivere con gli altri. Ma se gli altri, i disturbatori, non ci fossero più? Un punto di partenza irrinunciabile per riflettere sulla possibile mancanza dell'altro che ci vive accanto. Quando leggiamo un libro il primo livello è emotivo, proviamo un gradimento fino all'esaltazione oppure un disappunto se non ci piace, se lo troviamo noioso o poco interessante. Poi possiamo scendere ad esplorare i livelli più profondi. Dall'emozione ci indirizziamo a cogliere il secondo livello, quello che ci mette in luce la teoria, il pensiero, l'origine da cui è nata quella scrittura. Nel caso de La cura di Hesse scoviamo la teoria psicoanalitica. L'autore cadde in situazione di disagio psichico e affrontò più volte l'analisi anche nello studio di Jung, l'allievo di Freud. A quanto pare non riuscì mai a “guarire”, ma l'esperienza fu utile per imparare un metodo di indagine su stesso e sugli altri. Un metodo che risente anche dell'indagine filosofica e della scrittura, l'esplorazione è infatti basata sulla scrittura autobiografica. Tutta l'opera di Hesse è contaminata dai suoi contenuti personali per questo si presta ad essere un riferimento, un confronto, utile per il lettore. Se il nostro vicino di casa ogni sera si facesse una passeggiata con scarpe rumorose giusto nel momento in cui noi stiamo per addormentarci, come reagiremmo? Esiste una gamma di possibili reazioni dalla più violenta, lo affrontiamo imprecando (non voglio pensare alla violenza fisica) fino a maledirlo nel silenzio della nostra stanza se siamo troppo timorosi per farci sentire. Bene, ora provate a mettervi in quella situazione: vi sta dando fastidio, vero? Moltissimo, lo so! Immaginate che questa situazione si protragga nel tempo: sempre questo rumore molesto prima di addormentarvi. Ma un giorno di colpo cessa il disturbo e dall'altra parte più nulla, solo silenzio. A questo punto Hesse riesce con maestria a raccontare quanto e quando inizia ad avvertire la mancanza di quello scocciatore e piano piano ci conduce a comprendere il significato di questa assenza. In ultima analisi, il libro va letto per le sue sfumature e riflessioni veramente interessanti, ma dal mio punto di vista è straordinario per la sua capacità di mostrare con una scrittura efficace la possibilità di convivere con le proprie assenze. Chi si “sente solo” quando viene meno un rumore molesto, forse avverte dentro di sé un vuoto ingombrante, un vuoto che è solitudine vissuta come mancanza e non come possibilità di nuove aperture. La solitudine vissuta in un'esperienza di silenzio è rigenerativa. Se ci pensiamo, la parola rigenerativa rimanda ad una rinascita, proprio questo produce la solitudine silenziosa: una rinascita delle nostri parti morte o mai nate veramente.
Maria Giovanna Farina Giugno 2015 © Riproduzione riservata
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