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Quella sensazione e l'odore della morte


Quella sensazione la conoscevo bene. Eccome. Una volta provata, non è possibile dimenticarla. Il fatto è che giammai avrei immaginato di riviverla in contesti assolutamente differenti da quelli nel corso dei quali ebbi a viverla la prima volta. Innanzitutto va descritta. È non è per niente facile. È un misto di stupor e pietas; assieme a tanta, ma proprio tanta rabbia. E poi c’è la nausea, che la rende ancor più acida e insopportabile. Ma non del tipo che insorge in uno stomaco colpito da un agente patogeno che ne alteri anatomia e funzione. No.È piuttosto un senso di disgusto mentale; che peraltro non può nemmeno emendarsi mediante la naturale valvola di sfogo costituita dalla liberazione del vomito. È un nausea che resta lì, tra i neuroni, tra i pensieri, incombente e ingombrante, ad offuscare e deformare la visione della stessa realtà che ne ha provocato l’insorgenza. Quand’è che l’avevo provata la prima volta nella mia vita ? Ah sì. Ricordo. Fu quando mi trovai al cospetto di fosse comuni in cui erano stati riposti i corpi dilaniati da una insulsa guerra civile. Corpi di persone. Di esseri umani; non importa se civili o combattenti, se adulti o bambini, se uomini o donne, se alleati o nemici. Lì sotto, dove erano accatastati, erano tutti uguali. E tali erano anche quando venivano più o meno pietosamente portati su e allineati l’uno a fianco all’altro. Persone. Che erano state vive. Avevano gioito, riso, pianto, amato, odiato, urlato, scherzato, pregato, mangiato, dormito, corso, saltato… avevano vissuto. Di una vita ormai definitivamente sfuggita dalle loro cellule. Destinati alla deiscenza organica della propria corporeità, seppure con la consolatoria e indimostrabile speranza che se ne fosse serbata la essenza animica e spirituale. In quei frangenti quella maledetta sensazione a cui accennavo poc’anzi si fece strada per la prima volta nel mio cervello. E nel mio stomaco. Per non abbandonarmi più. Per tornare a ogni qual volta mi ritrovavo nuovamente al cospetto di quelle atroci rappresentazioni. Psicologi ben disposti indugiano ad affermare a riguardo che si tratta né più né meno che di un meccanismo di autodifesa con cui la mente si pone al riparo (non potendosene estraniare) dagli insulti più nocivi e destruenti che essa ritrova a fronteggiare. Di certo, viverla è esperienza impegnativa e devastante. Perché umanamente devastante la stessa Morte; che ne determina il manifestarsi e ne promuove il perdurare. Ebbene, quella stessa sensazione l’ho rivissuta di recente. Sempre associata alla constatazione di un ambito di Morte. Non quella attinente in senso stretto la cessazione fisica della vita di persone, di esseri umani; bensì la Morte degli strumenti mediante i quali viene trasmessa la sacra scintilla divina che tiene in vita la mente degli esseri umani: la Conoscenza. Non erano fosse comuni quelle di fronte alle quali mi sono ritrovato a rivivere quegli atroci sintomi. Si trattava di bancarelle. I cadaveri non erano persone. Erano libri. Accatastati per lo più alla rinfusa, senza un elemento logico che ne governasse la disposizione. Riversi su tavole che, magari, solo poche ore prima erano servite ad esporre prodotti ortofrutticoli o prelibatezze ittiche. Libri deposti inanimi in attesa che la mano di qualcuno li sollevasse da quel sepolcreto e li portasse via di lì. Verso una imminente, rinnovata resurrezione. Ove tornare a vivere per illuminare le vite altrui. È dunque questo il destino attuale che attende inesorabile le biblioteche personali e domestiche di coloro i quali appartenevano a quelle generazioni di esseri umani che dai libri avevano potuto suggere sapienza e conoscenza. Che solo sfogliandoli avevano intrapreso con essi perduranti e travagliati rapporti di complicità, di confidenza, di rispetto, di mutuo soccorso. Di amore. Libri. Appartenuti a persone di cui, una volta scomparse, sembra ormai possibile (per alcuni addirittura lecito) liberarsi di tutto. Essendo per chi rimane e ne eredita la presenza, soltanto né più né meno che degli oggetti con la fastidiosa tendenza ad impolverarsi. Un semplice mucchio da sottili lamine di cellulosa chiamate pagine su cui qualcuno ha vergato parole di cui altri, tanti altri, si sono nutriti. Per molti sono solo questi i Libri. Che pertanto vanno eliminati. Con ogni mezzo. Quando una famiglia di scellerati vicini di casa addivenne alla decisione (l’unica decisamente apprezzabile dello loro scialba esistenza) di traslocare, per giorni assistetti al genocidio di Autori rigorosamente espulsi dalla loro abitazione per essere deposti in lerce pattumiere. Nelle quali ebbero comunque a trovare un ambiente decisamente più confortevole in confronto alla agghiacciante vuoto delle disabitate scatole craniche di quei personaggi. E fu allora che si riaffacciò quella sensazione che conoscevo bene. Eccome. Quella che una volta provata, non è possibile dimenticare. Quella intrisa del mefitico odore della Morte. Di Morte. Quella che emana dai cadaveri di quei tomi uccisi, distrutti, negletti, abbandonati da bipedi che evidentemente non se ne sono mai serviti, essendo giunti a tale scelleratezza. E che pertanto umani non sono riusciti a diventare. Viventi, certo; ma non umani. Assolutamente no.


Cosimo Lerario, medico e scrittore (Novembre 2022 - Tutti i diritti riservati©)


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