Un tiro di dadi non fa una sentenza
In un Paese dove ci sentiamo tutti allenatori quando gioca la Nazionale, tutti dei guru della finanza quando cambiamo banca o il piano tariffario del nostro cellulare, non possiamo esimerci dal nostro ruolo di “giudici supremi” ogni volta che i mass media si occupano di un processo. Non è tanto la legge in sé ad accendere gli animi, ma l’applicazione della legge che spesso suscita sdegno, ira, nostalgia del boia e della pubblica gogna e di ogni sorta di sentimento crudele nei confronti dell’imputato e dei giudici che lo hanno assolto o non lo hanno condannato a rimanere a vita nelle patrie galere. In realtà, tale atteggiamento è spesso arbitrario e determinato del fatto che l’intero apparato di norme che regolano il processo, sia civile che penale, è materia completamente oscura ai più, molto spesso anche ai giornalisti. Non intendo dire che non esistano casi di mala giustizia, quelli purtroppo ci sono sempre stati e ci saranno anche in futuro, ma l’applicazione della legge e l’emissione di una sentenza non avvengono sempre, come spesso giornali e telegiornali tendono a far credere, con un tiro di dadi. Mi sembra, quindi, interessante soffermarmi su alcuni principi giuridici che stanno alla base del processo e che, forse, aiutano a capire meglio le controverse decisioni dei nostri giudici. La Costituzione fornisce importanti linee guida stabilendo che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.). Quindi, anche il reo confesso deve essere assistito da un avvocato e, se non ne vuole nominare uno di fiducia, gli viene assegnato un difensore d’ufficio. Infatti, al di là del fatto che sia stato commesso o no il reato, la difesa si basa su molti altri fattori che possono influire di molto sull’esito del processo, come, ad esempio, l’intenzionalità dell’azione commessa e la capacità di intendere e di volere dell'imputato. Questi elementi e molti altri ancora possono essere correttamente interpretati solo da chi ha competenza in materia; l'assistenza di un legale è, quindi, indispensabile. Sempre nella nostra Costituzione, l’art. 27 stabilisce che la responsabilità penale è personale: ognuno, quindi, risponde delle proprie azioni e non di quelle di amici, parenti o conviventi, salvo, comunque, il caso di concorso nella commissione del reato. Tale articolo stabilisce, inoltre, che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva: in caso di condanna in primo grado, se viene proposto appello, o di condanna in secondo grado, se viene proposto ricorso in Cassazione, la pena inflitta non viene eseguita e l’imputato può rimanere in libertà, salvo che non siano state decise misure cautelari nei suoi confronti. Sempre in tema di condanna penale, l’art. 533 c.p.p. stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di condanna “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Resa famosa dai più celebri film americani, la frasetta “al di là di ogni ragionevole dubbio” è stata introdotta anche nel nostro ordinamento, nel 2006 per la precisione, per rafforzare il concetto che, nel dubbio, quindi in carenza di elementi di prova, non può essere pronunciata una sentenza di condanna. In tema di onere della prova anche il codice civile, all’art. 2697, stabilisce che “chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Sulla questione degli elementi di prova il discorso è sicuramente complesso, ma come principio generale si può dire che i fatti che stanno alla base di una decisione giudiziale, sia civile che penale, devono necessariamente essere provati; ciò, all’atto pratico, comporta non poche difficoltà. Le prove possono essere di vario tipo come le scritture, le registrazioni video o audio, le testimonianze, tuttavia, in molti casi manca la prova del fatto che è l’elemento chiave del processo. Tralasciando il complesso tema delle presunzioni e dell’inversione dell’onere della prova, concetti principalmente applicati in ambito fiscale ma non solo, può capitare che siamo certi di un nostro diritto ma, non avendone le prove, perdiamo la causa o, per tornare all’ambito penale, il criminale del secolo può ottenere l’assoluzione proprio per carenza di prove. La responsabilità per una assoluzione inaspettata o per la perdita di una causa civile che sembrava dovesse essere vinta in partenza non può, quindi, essere a priori attribuita al giudice, che si deve esprimere solo in base agli elementi che si sono stati dimostrati dalle parti. La responsabilità, quindi, per i giudizi tanto inattesi e apparentemente ingiusti di chi è? Dei p.m. o degli avvocati che non hanno fornito al giudice tutti gli elementi per una corretta valutazione? Dal mio punto di vista, spesso non si può trovare un responsabile, il p.m. ha un ruolo importantissimo in quanto deve fornire le prove della commissione del reato da parte dell’imputato, alla pari, nel processo civile, l’avvocato deve provare l’esistenza del diritto che il cliente vuole far valere, tuttavia, la prova diretta di un fatto, a volte, è pressoché impossibile da fornire. In questi casi si cerca di dimostrare indirettamente l’elemento “chiave”, provando altri fatti ad esso collegati e costruendo un ragionamento logico per il quale dai fatti noti si giunge al fatto ignoto. Chiaramente, non sempre il risultato è garantito, ma il giudice può fondare la propria decisione solo in base a quanto si è riusciti a dimostrare e alla logicità del ragionamento sottostante. Per concludere, ritengo che le sentenze “ingiuste” nella gran parte dei casi non siano casi di mala giustizia, ma siano la conseguenza negativa di un sistema di norme processuali che consente l'emissione di una sentenza di condanna solo in presenza di prove certe, al fine di evitare le conseguenze ancor più negative che si verificherebbero se una sentenza potesse essere emessa anche solo in presenza di semplici indizi; in tal caso gli errori giudiziali sarebbero sicuramente molti di più.
Alessandro Bonfanti |
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