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Molteplice e molteplicità

Note a margine di un dibattito



Il contributo che intendiamo proporre vuole porsi nell’ambito dell’annoso dibattito tra due pensatori assai significativi del nostro tempo: Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino. Questi filosofi detengono sicuramente il merito di aver riportato in auge, in modo talora paradossale e con un’articolazione teoretica densissima, non sempre facile da seguire, le tesi metafisiche per molti versi emarginate dal dibattito filosofico contemporaneo. La divergenza fondamentale tra i due è, come è noto, relativa al divenire, salvaguardato dal primo per poterne dedurre un principio indiveniente che salvi ciò che è mutabile dalla contraddizione, mentre per il secondo lo stesso divenire sarebbe il dato originario in cui la contraddizione non comparirebbe, almeno considerando la cosa non astrattamente ma implicando tutte le considerazioni ontologiche che il pensatore bresciano non si esime dal compiere. Così possiamo sintetizzare semplificando molto un dibattito che si è esteso nei decenni e che tanto ha fatto scrivere gli stessi protagonisti e i commentatori più attenti. La nostra attenzione chiarificatrice vuole invece appuntarsi su un aspetto apparentemente meno centrale ma che è altrettanto importante, quale può essere il nodo del molteplice, presente in entrambe, almeno per il comune riferimento a Parmenide, cui ambedue si ispirano è che risulta a nostro avviso illuminante per comprendere il portato teoretico di entrambe i filosofi, in particolare in Emanuele Severino. Occorre evidenziare innanzitutto che i due termini del problema, come anche lo stesso Eleate aveva intuito in qualche modo, sono intimamente connessi, dovendo riferirci a ciò che gli scolastici qualificavano come ente, quel quid che soggiace alle mutazioni e che comunque ci fa identificare la realtà nelle sue molteplici sfaccettature. Ciò che muta è il molteplice, non un essere indefinito e astratto, tale che negando un corno del problema si pone in discussione anche l’altro. In realtà ciò cui ci troviamo di fronte in entrambi i casi, è una forma di dialettica del tutto nuova che conduce ad un principio ontologico unico, non percepibile ma fondante: il fondamento, appunto, che rende ragione ad un tempo dell’eternità dell’essere secondo quanto afferma Parmenide, e il mondo dell’esperienza che appare incontrovertibile. Questo “movimento” è appunto dialettico nel senso originario del termine, pone in collegamento due elementi che in prima istanza sembrano inconciliabili.1. Severino nega che si possa parlare in questo caso di dimostrazione quanto piuttosto di procedimento elenchico di rimozione della negazione in chi cioè non accetta l’esistenza del molteplice.2 Una dimostrazione apofantica, secondo quanto riportato, indurrebbe a porre come dubitabile il nesso tra l’Essere e il suo non identificarsi con il non essere, cosa che per il pensatore bresciano è assolutamente improponibile. Lo è perché la negazione del non essere dell’essere implica la possibilità che l’essere talvolta non sia. Infatti, per questo pensatore tale possibilità è collegata direttamente con il divenire. Per lui che l’essere sia, è immediatamente evidente. In questo senso cogliamo anche la critica che Severino muove a Melisso di Samo il quale nel tentativo di sistematizzare il pensiero di Parmenide indica che l’essere non può sorgere da alcuna cosa che da se stesso, ipotizzando che per assurdo se l’essere nascesse, dovrebbe scaturire da altro da sé e quindi dal nulla, ma dal nulla nulla può sorgere. Fin qui in parte il frammento primo dell’opera del discepolo dell’Eleate ma questa ipotesi con procedimento per assurdo viene rigettata da Severino con la stessa argomentazione sopra riportata, ossia la possibilità semplicemente logica di ipotizzare un non essere come fondamento dell’essere rappresenta l’equiparazione ontologica della Diade originaria, una sorta di sofisma di Gorgia nel senso proprio del significato decettivo dell’espressione sofistica. Qui però sorge una prima difficoltà, in quanto nell’ordine dell’esperienza non si incontra l’Essere ma l’essere dell’ente in un atto puramente intenzionale. Secondariamente, il non essere dell’essere lo si scopre anche e in primis (anche se nell’ordine precipuo dell’astrazione logica) nella molteplicità, come Platone ha mostrato nel Sofista3. L’ordine della possibilità inoltre può evidenziarsi anche come possibilità logica, cioè come una determinazione ficta che conduce non contraddittoriamente ad un ente. È, infatti, impossibile che in uno spazio euclideo si dia un triangolo la cui somma degli angoli interni sia diversa da 180°, tuttavia in uno spazio non euclideo ciò sarebbe possibile. Tant’è che successivamente Il filosofo bresciano cita la terza via di san Tommaso (secondo la versione che ne dà la Summa theologiae)4 in cui la dimostrazione dell’esistenza di un essere necessario viene inferita dalla possibilità del non essere degli enti: ma è qui il punto. L’ordine della possibilità a cui fa riferimento Tommaso è un ordine “materiale” della possibilità, una determinazione che poggia su alcune precondizioni date dell’essere che conducono necessariamente a un Essere che renda ragione degli enti e della loro possibilità. Qui stiamo discutendo per contro, di una possibilità puramente logica dettata dalla possibilità di semantizzare l’essere, un ordine puramente non contraddittorio riscontrabile nell’ambito del senso se non del significato e che qui trova una sua legittimità. Riscontriamo cioè una concezione fortemente megarica della possibilità intesa come sequenza causale di nessi che non può non essere e non darsi. D’altronde a rigor di logica anche una difesa elenchica dell’essere degli enti, cioè l’essere di A non è il suo non essere, utilizzata da Aristotele e accolta da Severino5, inesorabilmente non sfugge a una dialettizzazione dell’Essere, cioè all’utilizzo di categorie implicanti la semantizzazione del non essere. Nel Poscritto6 di “Ritornare a Parmenide” la difficoltà si rende ancora più evidente. L’autore afferma, secondo noi giustamente, che l’essere dell’ente A, ossia il suo apparire, compete necessariamente all’ente in questione: non c’è ente se non con il suo apparire, il problema tuttavia è comprendere che cosa sia A. Qui il filosofo liquida, a nostro dire, la cosa in una parentesi che tiene conto citarla per esteso: “ così come a questa superficie, che è rossa, conviene necessariamente di essere rossa, e se cessa di apparir rossa non cessa in quanto è questa, ma in quanto è una permanenza sottesa alla superficie rossa e alla superficie non rossa”. Benissimo. Fin qui seguiamo il Nostro, ma può essere in qualche modo arbitrario attribuire la qualifica di Ente di un certo tipo a ciò che può non esserlo. Tuttavia cos’è questa permanenza di cui si parla e che in qualche modo rinvia al sostrato aristotelico? Tale permanenza di cui qui si tratta è un atto arbitrario nominarla, pur trattandosi di un arbitrio necessario alla pratica quotidiana. Tentiamo di spiegarci con un esempio con un linguaggio famigliare che possa essere più semplice. Il termine “neve” per noi italiani, ma anche per molte lingue occidentali, ha un solo sostantivo che riguarda il fenomeno meteorologico a tutti ben noto. Sappiamo invece che per la popolazione Innuit ci sono decine di termini che hanno questo significato, conseguenza di un' esperienza ben diversa dalla nostra e più ricca di dimestichezza con questa presentificazione dell’essere. Se accettiamo questa diversità linguistica, sfuma anche nella sua rigidità il concetto di ente e l’essere che viene attribuito necessariamente assume un significato affatto differente. Ciò che è (l’ente) muta nell’ambito del contesto linguistico di riferimento e conseguentemente l’essere dell’ente risulta essere diverso in quanto, poniamo qui un’ ipotesi di scuola, ciò che noi chiamiamo “neve” può scomparire secondo il nostro modo di vedere, la nostra esperienza, ma non per una popolazione quale quella citata che potrebbe riscontrarla anche in poche gocce semiliquefatte da noi scarsamente percepibili: è o potrebbe essere qualcosa che per altri è qualcos’altro. In questo modo gli oggetti possono al più essere concepiti come “possibilità permanenti di percezioni”, secondo quanto affermato da Stuart Mill, ponendo in dubbio che essi “siano”, cioè che abbiano quell’esse oggettivo ineliminabile per poterne dedurre la qualifica di essenze e quindi di essenti da cui la loro conseguente eternità. E non è legittimo neppure affermare che al soggetto conoscente basti il termine di “ente” o di “cosa” per potersi collocare nel mondo. Il soggetto cerca, legittimamente, un nome, un “che cos’è” per non trovarsi in una realtà impraticabile. Entrambe gli autori, muovono, quindi, da un dato da essi considerato immediatamente evidente, che per noi lo è meno, aspetto fenomenologico e poi logico di un principio universale: l’essere è, termine primo auto evidente che non necessita di ulteriore fondazione, aspetto per se notum, che elimina ogni regressum in indefinitum7, ma per Bontadini ciò è la funzione metodologica dell’unità dell’esperienza,8 In realtà, come abbiamo dimostrato, non c’è un essere immediatamente evidente, la Diade originaria è frutto di una mediazione e si deve sempre transitare per la mediazione degli enti, sia per ciò che riguarda la loro essenza, ma cosa ancora più rilevante, per il loro essere. Conoscere implica mediare attraverso concetti universali per approssimarsi sempre di più alle realtà individuali che vengono conosciute nella loro individualità solo in parte e con molta fatica. La stessa cosa dicasi per l’essere che viene predicato individualmente solo dopo averne avuta la determinazione universale. In ciò bisogna essere molto chiari: quello che appare come immediato in realtà è frutto di una mediazione innegabile che fa riferimento preliminare alla gnoseologia. Lo stesso Bontadini riconosce quest’aspetto in un suo illuminante passaggio: “Ma la totalità dell’immediato non è neppure qualcosa di scontato, di concluso, di compiuto. Già grammaticalmente (il corsivo è nostro) dei due termini di immediato e mediato quello derivato è il primo: l’immediatezza è perciò il frutto della mediazione.”9 D’altronde Tommaso d’Aquino nelle Questiones de veritate è molto preciso in quest’asserzione, in quanto pone l’essere come ciò che è di per sé nozione generale assolutamente trascendente gli enti, gli accidenti, le categorie e Dio stesso e non risponde ad un concetto se non per analogia, quindi l’apparire dell’apparire di Severino solo in modo assolutamente particolare può essere omologato filosoficamente10. In questo stesso passo l’Aquinate pone tale nozione come “nozione implicita” a tutte le altre. E’ vero, il filosofo bresciano, al seguito del suo maestro, nega ogni cittadinanza ad un Essere ipostatizzato che non solo sia qualificabile come Dio ma anche come Essere in quanto tale, eliminando ogni forma di differenza ontologica, ma l’insieme degli essenti non può che essere determinato come essere, come sostanza pensata e forse pensante in cui passano gli enti e in cui in qualche modo “scompaiono”. La realtà in cui gli essenti sfociano per Bontadini è Dio, mentre per Severino è la “Gloria”, che pure è un essente o dimensione di essenti, dai risvolti ancora non del tutto chiari. In prima battuta ci sembra che ciò da cui non si possa muovere, sia un Ego trascendentale di tipo cartesiano o agostiniano che non soggiace alla contingenza se non de facto. In questo contesto, non considerando quanto da noi proposto, indugiamo quindi e ancora, a nostro avviso, nel molteplice, ossia in una costatazione ancora esperienziale della pluralità degli enti, senza fondarla teoreticamente, non dandole un fondamento, cosi come aveva peraltro tentato lo stesso Parmenide nel suo poema “Sulla natura” in cui aveva tentato una terza via che conciliasse il Logos dell’Essere con la realtà fenomenica che chiamiamo invece molteplicità. I paradossi zenoniani sul molteplice sono per noi ancora attuali nella loro drammatica coerenza e da lì, anzi dalla premessa ontologica che a loro soggiace, occorre muovere, se il discorso filosofico vorrà essere davvero fondante. Il rischio in cui si incorre è sicuramente il solpsismo filosofico, inteso qui, come permanenza nell’ens ontologico indifferenziato ma soggettivo e trascendentale. Tuttavia un’accorta gnoseologia della differenza sembra poter escludere tale possibilità e sarà oggetto di una nostra ulteriore riflessione e facciamo nostre, almeno in parte, le critiche che Derrida, in un contesto molto differente, volge ad una semplicistica accezione del concetto di essenza proponendo una problematicità sorgiva della questione della Differenza. Se questo sforzo non verrà compiuto, le riflessioni filosofiche, pur rivestendo una loro dignità, rimangono al di qua di una vera possibilità di fondazione e di portata quindi limitata.

Ciò che qui abbiamo tentato di chiarire è la problematicità dei passi iniziali del filosofo bresciano e del suo maestro, pur riconoscendo l’ampiezza del portato teoretico, senza tuttavia dare risposte che siano altrettanto certe e definitive.

Mario M. Guttagliere


(Mario Guttagliere, già docente di filosofia, insegna storia e letteratura in un istituto superiore romano. Si è laureato in filosofia morale con il massimo dei voti all’Università Cattolica di Milano.)

Note al testo:

1 G. Bontadini, Σώξειν τά φαινόμενα, in Conversazioni di metafisica, Milano 1995, vol I p. 148.

2 E. Severino, Ritornare a Parmenide in Essenza del nichilismo, Milano 1982, p.33.

3 E. Severino, op. cit., p.33-34.

4 E. Severino, Ritornare a Parmenide, op. cit. p.37.

5 E. Severino, Poscritto in op. cit. p.95.

6 E. Severino, La struttura originaria, Milano 1981, p.143.

7 G. Bontadini, La funzione metodologica dell’unità dell’esperienza, in op. cit., p.36.

8 G. Bontadini, Il compito della metafisica, in op. cit. p.78.

9 Tommaso d’Aquino, Le questioni disputate, vol. I, t.1, Bologna 1992, p. 74.



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1G. Bontadini, Σώξειν τά φαινόμενα, in Conversazioni di metafisica, Milano 1995, vol I p. 148.



2 E. Severino, Ritornare a Parmenide in Essenza del nichilismo, Milano 1982, p.33.



3 Platone, Sofista, in Tutte le opere, Firenze 1983, pp. 254-263.



4 E. Severino, op. cit., p.33-34.



5 E. Severino, Ritornare a Parmenide, op. cit. p.37.



6 E. Severino, Poscritto in op. cit. p.95.



7 E. Severino, La struttura originaria, Milano 1981, p.143.



8 G. Bontadini, La funzione metodologica dell’unità dell’esperienza, in op. cit., p.36.



9 G. Bontadini, Il compito della metafisica, in op. cit. p.78.



10 Tommaso d’Aquino, Le questioni disputate, vol. I, t.1, Bologna 1992, p. 74.