Intervista a Giuseppe Gioffredi ricercatore e professore di Diritto internazionale e di Tutela internazionale dei diritti umani presso l'Università del Salento. Un esperto che ci può chiarire le idee...
Prof. Gioffredi, che differenza c’è fra ‘diritto umanitario’ e ‘diritti umani’? Si tratta di due diversi settori del diritto internazionale, che mirano entrambi a proteggere la persona umana anche se lo fanno in circostanze e con modalità differenti. Il ‘diritto internazionale umanitario’, tradizionalmente definito diritto bellico o dei conflitti armati, si applica nelle situazioni di ‘conflitto armato’ e ha come fine soprattutto quello di proteggere le vittime di guerra (feriti, prigionieri, naufraghi, soldati che hanno deposto le armi) e i civili. Esso si basa essenzialmente sulle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e sui due Protocolli addizionali del 1977. È il cosiddetto ius in bello, inteso a sottoporre a disciplina comune l’esercizio dello ius ad bellum dei singoli Stati. Un corpo di regole, dunque, sia consuetudinarie che pattizie, le quali sono destinate a “umanizzare” le asprezze della lotta tra i contendenti e a tutelare gli Stati non belligeranti. Il ‘diritto internazionale dei diritti umani’, invece, costituito soprattutto da numerosi accordi multilaterali, riguarda la tutela della dignità umana e dei diritti umani in qualunque situazione (sia in tempo di pace che in guerra) e ovunque l’individuo si trovi (dunque, anche e soprattutto, nei confronti del proprio Stato). Si pensi alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, ai Patti internazionali del 1966, alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989. Il fine dunque (la protezione della persona umana) è lo stesso del diritto umanitario, diverse sono invece le modalità con cui tale protezione avviene e le circostanze in cui essa si esplica. Ci sono sicuramente dei punti di contatto fra tali due settori, ma molti sono anche i punti di divergenza: la sfera di applicazione temporale, il campo di applicazione sia soggettivo che oggettivo, nonché l’origine storica, essendo le norme del diritto umanitario molto più antiche di quelle dei diritti umani (i principî di base del sistema giuridico del diritto umanitario trovano addirittura il loro fondamento filosofico nelle teorie sul diritto della guerra di U. Grozio (1583-1645), esposte nel De Jure Belli ac Pacis libri tres, e negli ideali liberali e umanitari dei filosofi illuministi). Nella prospettiva dei nuovi conflitti bellici, gli Stati come si comportano nei confronti del diritto internazionale? Viene rispettato? O ci sono scappatoie per eluderlo pur rimanendo nella legalità? Non ci sono scappatoie per eluderlo pur rimanendo nella legalità, nel senso che se uno Stato agisce in maniera non conforme alle norme della Carta dell’ONU o alle norme consuetudinarie esistenti in materia di uso della forza nell’ordinamento internazionale, tale Stato pone in essere un comportamento che viola le norme del diritto internazionale ed è quindi illecito. Il fatto che poi, pur illeciti, alcuni comportamenti vengono ugualmente posti in essere da alcuni Stati, non muta la sostanza del discorso; né può portare a concludere (come alcuni fanno) che il diritto internazionale non sia un vero e proprio fenomeno giuridico capace di imporsi al singolo Stato. È vero che spesso mancano mezzi idonei per costringere gli Stati (soprattutto le grandi Potenze) al rispetto delle norme internazionali, ma la scarsa incisività della funzione di attuazione coattiva del diritto non è altro che una delle caratteristiche principali dell’ordinamento giuridico internazionale, che è un ordinamento profondamente diverso dagli ordinamenti giuridici interni, e che bisognerebbe conoscere e capire a fondo prima di dare giudizi affrettati ed errati in materia. Del resto nessuno penserebbe mai di dire che il nostro ordinamento non è un ordinamento giuridico solo perché alcune sue norme vengono (anche ripetutamente) violate. Certo una differenza c’è. E non è di poco conto. Le violazioni degli Stati, nel settore del divieto dell’uso della forza (art. 2, par. 4, Carta ONU), danno luogo a un allarme sociale particolarmente elevato presso gli Stati e le opinioni pubbliche dei vari Paesi, perché la violazione – in questo settore – equivale alla guerra! Che è il peggior flagello dell’umanità, come ribadito anche nel Preambolo della Carta delle Nazioni Unite. Le uniche eccezioni previste dal diritto internazionale alla regola generale del divieto dell’uso della forza (e quindi gli unici casi in cui gli Stati possono usare la forza – ossia fare la guerra – in maniera lecita) sono la legittima difesa (ossia la reazione a un attacco armato già sferrato) e l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ex cap. VII della Carta. Nella prospettiva dei nuovi conflitti bellici, dunque, sono illegittimi tutti quei casi di uso della forza che non sono stati autorizzati dal Consiglio di Sicurezza o che non sono stati dettati dalla necessità di respingere un attacco armato. Quindi, l’uso della forza (senza autorizzazione dell’ONU) a tutela dei diritti umani (il c.d. ‘intervento umanitario’), o per reagire al terrorismo, o per prevenire un futuro attacco armato (la c.d. ‘legittima difesa preventiva’) non trovano riscontro né nella Carta dell’ONU né in norme consuetudinarie in materia. Altro discorso è poi la verifica della condotta degli Stati anche in caso di autorizzazione del Consiglio (si pensi alla vicenda della Libia), condotta che dovrebbe essere conforme agli obiettivi della risoluzione e ai mezzi da essa consentiti. Ma questo e un altro, ed ancor più lungo, discorso. Quali sono i compiti dell’ONU? Ha ancora un valore vincolante? Il compito principale dell’ONU è ancora oggi (così come quando è nata) quello di “mantenere la pace e la sicurezza internazionale” (art. 1 della Carta). Spesso si sente dire che oggi l’ONU ha fallito il suo mandato o addirittura che esso non ha più valore, ma si tratta di giudizi affrettati ed ingiusti. Certo è vero che ci sono delle insufficienze nel sistema, nato nel 1945, a fronte del mutato contesto internazionale contemporaneo. La composizione del Consiglio di Sicurezza, ad esempio, rispecchia la situazione dell’epoca, quando le due Superpotenze ritennero necessario assumere il controllo delle relazioni internazionali e accordarsi su eventuali azioni collettive a difesa della pace; crearono così un organo composto dagli Stati che all’epoca erano ritenuti indispensabili per un efficace controllo di tali relazioni e che oggi costituiscono i 5 membri permanenti del Consiglio, ossia gli unici Stati che sono dotati del potere di veto (con cui possono bloccare le risoluzioni a cui sono contrari). Ma dichiarare fallito o, peggio ancora, morto l’ONU è sbagliato, perché la sua assenza renderebbe la situazione internazionale ancora più grave, potendo essa sfociare verso l’anarchia o il completo unilateralismo. Piuttosto si tratterebbe di rivitalizzarne il ruolo, ad esempio attraverso lo snellimento di alcune procedure e soprattutto attraverso una riconsiderazione della composizione dell’organo più importante, ossia del Consiglio di Sicurezza. Su quest’ultimo punto ricordiamo che alcune delle proposte più interessanti sono state formulate dall’Italia, e puntano alla creazione di una nuova categoria di seggi definiti semi-permanenti e ad una maggiore rappresentatività regionale. Maria Giovanna Farina presidente dell'associazione culturale L'accento di Socrate (Tutti i diritti riservati©)
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