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L’idea di perfezione


L’idea della perfezione insita nell’uomo origina da una tendenza propria dell’uomo: quella di creare certezza laddove la percezione offerta dai sensi darebbe incertezza, riconoscere una relazione causa-effetto in presenza di fenomeni che si presentano casualmente associati. L’uomo nel raccogliere informazioni dal mondo circostante ha sempre un’urgente necessità di avvolgerle in un fazzoletto che gli permetta di dar loro un’interpretazione ed un significato. Da notare che non è solo il sistema percettivo a fallire nel predire questa certezza illusoria, è l’esperienza consapevole a voler trarre conclusioni deduttive, generalizzando sul mondo che ci circonda e su noi stessi.

Possiamo mettere da parte ogni illusione in questo senso: non siamo perfetti, la caducità è piuttosto una delle caratteristiche dell’uomo. L’aspetto più maledettamente intrigante dell’uomo è piuttosto la sua enorme potenzialità creativa, la capacità di adattarsi a qualunque situazione ambientale, la versatilità nel superare gli ostacoli. Quando è alla ricerca della verità, ma sempre consapevole della sua provvisorietà, allora l'uomo è capace di ristrutturare creativamente significati e relazioni fra le cose, alla luce del proprio vissuto personale fatto di emozioni ed intuizioni, fornendo un nuovo contesto al suo campo d’azione. Buffo l’uomo: riesce a stupire quanto più è consapevole dei propri limiti.

La mente umana è un sistema aperto dotato di capacità di interazione ed adattamento agli stimoli esterni praticamente senza limiti” (G. Israel), non è affatto un sistema chiuso deterministico e pre-programmato, capace di un numero finito di operazioni, come sono di solito i sistemi computazionali.

Secondo una famosa analogia di H. Putnam il cervello è l’hardware che fa girare il software della mente, così come i computer sono gli hardware che fanno girare i programmi informatici. Questa analogia presuppone fra il cervello e il computer più caratteristiche in comune di quante ve ne siano nella realtà, denotando una visione comunque meccanicistica del nostro organismo. L’uomo crede di poter costruire qualcosa di analogo alla sua mente, non rendendosi conto che con il linguaggio ha già creato un analogo dell'IO che chiama coscienza. Speriamo che un domani non voglia trasformare il proprio cervello in un computer, perché questo limiterebbe per sempre la sua infinita capacità di evolversi.

La ricerca dell’assoluta perfezione è in qualche maniera simile alla ricerca dell' “anima gemella”: l’ uomo è un essere insoddisfatto per natura, spesso incapace di accettare i propri difetti e quelli della persona che gli sta accanto. Forse che con la nascita dell’intelligenza artificiale l'uomo perfetto ed intelligente stia cercando la sua fidanzata perfetta?

Non possiamo a questo punto dimenticare il contributo dato dall’industria cinematografica agli immaginari robot del futuro dotati di intelligenza. L’ uomo avverte la necessità di controllare e spodestare i computer centrali di bordo, così viene fatto fuori Hal 9000 nel film di Kubrick “2001 Odissea nello spazio” e viene spento Auto nel più recente “Wall-E”. In questo recente film d’animazione viene spinta a tal punto l’umanizzazione dei robot da immaginare una storia d’amore, un ballo nello spazio, fra il protagonista Wall-E, robot maschio di un’età arcaica e l’affascinante e più moderna Eve. Fra i vari messaggi che il film suggerisce ne emergono almeno due interessanti al nostro riguardo. Se l’uomo delegherà in futuro lavori noiosi e ripetitivi ai robot da lui creati potrebbe trascurare di allenare il proprio corpo trasformandosi in una sorta di ameba? Potrebbe essere in questo caso l’ opera di due robot a salvare l’umanità dalla sua estinzione?

Per altro dobbiamo constatare come stia progressivamente cambiando la fisionomia e l’attribuzione di caratteristiche ai robot costruiti più di recente (tutti con nomi femminili) rispetto ai primi rudimentali robot maschili, come se l’uomo si rendesse conto solo adesso di quanto sia importante la sensibilità intellettiva femminile nelle relazioni con l’altro. Al Mit Media Lab, il distretto d’avanguardia del Massachusetts Institute of Technology, hanno creato da qualche anno un robot in grado di comunicare a diversi livelli con gli esseri umani: Nexi (per certi versi simile a Eve) ha un vasto campionario di espressioni facciali, videocamere al posto degli occhi, mani per manipolare gli oggetti, una camera a 3D ed un laser per monitorare gli oggetti e le persone intorno a sé. L’interfaccia fra uomo e macchina nei robot di ultima generazione sta divenendo negli ultimi anni più importante della capacità di simulare stati mentali. Un tempo quest’ultima era la caratteristica ritenuta fondamentale per i computers, tale da convalidare l’ “ipotesi forte” dell’intelligenza artificiale, così come era stata espressa in maniera provocatoria da J. Searle: “il computer appropriatamente programmato è realmente una mente, nel senso che i computers con un adeguato programma capiscono ed hanno stati cognitivi”. Gli ultimi artefatti capaci di muoversi sembrano invece confermare l’ “ipotesi debole” dell’ intelligenza artificiale, secondo la quale un sistema fisico basato sulla manipolazione dei simboli può comportarsi in maniera apparentemente intelligente, pur non essendo in grado di dare un significato a quei simboli. Non risulta più interessante creare un computer che simuli in tutto e per tutto la mente quanto piuttosto arrivare a costruire una macchina che potrebbe integrare alcune sequenze di funzionamento logico coerenti con il mondo reale.

L’ ingegneria dei robot si è liberata almeno in parte della necessità di far sembrare una macchina simile nel comportamento a quello di una mente consapevole. Alcune più recenti teorie sul funzionamento cerebrale sembrano convalidare l’ ipotesi secondo cui perfino alcune funzioni del sistema motorio non coinvolgano immediatamente l’area cognitiva, ma solo in un secondo tempo. I neuroni specchio “mostrano come il riconoscimento degli altri, delle loro azioni e perfino delle loro intenzioni dipenda in prima istanza dal nostro patrimonio motorio” (G. Rizzolatti). Solo in una fase successiva del pensiero la capacità di rappresentare le percezioni ci permette di inferire a partire dalle intenzioni e dalle motivazioni altrui.

L’ intenzionalità, considerata da Searle uno dei processi primitivi basilari in quanto non suddivisibile in nozioni più semplici, viene quindi rivalutata alla luce di questa scoperta non più come un gradino fondamentale della coscienza, ma piuttosto come una sorta di rappresentazione inconscia delle opportunità offerte dall’ambiente al soggetto.

Per i robot di ultima generazione risulta più importante interagire con l’ambiente sfruttando queste caratteristiche piuttosto che dimostrare di essere una macchina universale. Nel 1972 H. Dreyfus sosteneva che alcune capacità inconsapevoli della percezione e dell’attenzione nell’uomo fossero più importanti della capacità di manipolazione dei simboli, così come proposto dalla macchina universale di Turing. La capacità di contestualizzare la propria conoscenza e di adattarla all’ambiente circostante secondo il senso comune e secondo meccanismi di percezione inconsapevoli sembrano essere l’ arma in più della specie umana, pur essendo molto lontana dall’ essere perfetta. Se è vero che il cervello sfrutta in maniera prodigiosa i vantaggi del suo sistema questo non implica però che l’uomo sia necessariamente l’unico sistema fisico a poter interagire con l’ ambiente.

L’ uomo non è una macchina perfetta, ma è insito nella sua imperfezione e nella sua capacità di adattarsi all’ambiente circostante il motivo dominante della sua evoluzione biologica. Ciò nonostante è forse possibile costruire in futuro automi di struttura non biologica in grado di migliorare le azioni nello svolgimento di compiti eseguibili nello spazio a loro esterno.

Luigi Giannachi - medico e sceneggiatore

(Ottobre 2016 - Tutti i diritti riservati©)


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