Il Paradosso Del Vivente
L’uomo è un paradosso vivente. Se cerca di dominare le sue emozioni in nome della ragione illuminante si irrigidisce dentro uno schema fisso poco adattabile alla variabilità cangiante del mondo. Se lascia esternare l’intera gamma delle sue emozioni e dei suoi sentimenti tende a perdere la bussola della navigazione dentro un mare in tempesta. Se crede di poter dominare la sua intera conoscenza raccogliendo le esperienze di tutti i giorni non riesce a determinare dei principi generali da seguire. Se generalizza in maniera sistematica astraendosi dalla realtà esperienziale si fa guidare in maniera teorica da leggi che non lo rappresentano più. Se crede di dover affrontare la vita sempre in maniera seriosa perde la propria capacità di autocritica. Se pensa di poter solo ridere in questo mondo in rovina finisce per criticare troppo gli altri. Se preferisce fare il furbo per fregare gli altri (perché tanto tutti in fondo lo fanno) arriva a fregare sé stesso in quanto il denaro diviene un fine, non più un mezzo. Se si rinchiude dentro torri d’avorio non viene più ascoltato da nessuno, così la sua parola resta nel vuoto. Perfino la stessa esistenza dell’uomo in fondo è un enigma difficilmente risolvibile. Non c’è dubbio che sia fatto di corpo e anima, qualcosa in più di molti animali, qualcosa in meno rispetto a molti altri animali, eppure con una sorta di autoconsapevolezza riguardo al proprio essere che talora supera l’orgoglio, rasentando la sbruffoneria. Se dovessi dare una definizione di questa razza che da tetrapode è diventata bipede, capace di essere il più crudele ma anche il più generoso fra gli animali, non ne saprei dare una. La vitalità che lo rappresenta è un teatro di ambiguità tale da perdersi in molteplici spettacoli poliedrici. Forse è proprio la sua capacità di rappresentarsi in una miriade di sfaccettature a giustificare il suo operare nel mondo. Ma chi siamo noi, razza bastarda piena di contraddizioni, per pensare di poter davvero condizionare questo mondo che ci ospita? Cosa diamo in cambio della vita che riceviamo, piena di gioia o di tristezza che sia, per meritarci il diritto di esistere? L’uomo ha necessità di autogratificazione in tutto quello che fa da cercare una giustificazione anche quando le cose vanno male e vorremmo che andassero sempre bene. Il paradosso che ci contraddistingue si trasforma così nell’infiorettatura proiettata sul futuro. È opinione comune che bisogna essere positivi per far bene, per raggiungere un esito positivo in una certa azione, da cui le espressioni “non essere negativo” oppure “pensa positivo”. Entrambe queste espressioni rientrano nelle facili banalizzazioni di una psicologia spicciola e frettolosa con poca sostanza e tanta voglia di vendere messaggi semplici, magari vendute ed accompagnate da immagini che supportino l’efficacia di tali espressioni. L’espressione “non essere negativo” è un comando imperativo su una condizione di “non essere”, una sorta di comando paradosso, in cui non bisognerebbe comportarsi in quel determinato modo qualunque cosa succeda, un boomerang imperativo applicato alla vita quotidiana, come se si potesse standardizzare gli avvenimenti quotidiani in un unico formato da seguire come regola d’oro. L’altra espressione “pensa positivo” è ancora più perfida, se così si può dire, perché presuppone si possa comandare cosa pensare ad una persona ed allo stesso tempo presuppone che l’altro possa trasformare il proprio pensiero così, con un clic, da un momento all’altro, come se ci fosse un interruttore della corrente elettrica. Il modo con cui ci accingiamo a fare le cose non è così facilmente modificabile, quanto piuttosto è il risultato di esperienze, sentimenti, emozioni e condizionamenti operanti nel corso della vita. Essere è molto più difficile che fare o avere, è un qualcosa che non può essere cambiato nel breve periodo, né tanto meno condizionato dall’esterno. Inoltre vorrei sapere chi ha detto che essere negativo sia sempre controproducente? Forse potrebbe essere svantaggioso essere sempre nello stesso modo qualunque cosa accada, non è tanto l’essere in un modo oppure nell’altro che sia un demerito, quanto l’aver perso un' ’elasticita’ mentale e finire sempre di comportarsi in un certo modo. Il risultato finale di un’impresa (un’attività sportiva, una società di investimento, un esame o rimettere in ordine casa propria) dipende più dalla nostra capacità di sapersi adattare alle situazioni che non dall’umore di base della persona o all’umore del momento. L’uomo nella sua storia biologica ha dimostrato di avere fra le sue capacità quella di sapersi adattare alla situazione contingente. Alcuni di noi sono divenuti così trasformisti da rendersi quasi irriconoscibili mentre lavorano (gli attori per esempio o i politici), ma devono poi fare i conti con sé stessi, devono avere la capacità di tornare ad essere sé stessi. Vorrei proporre in proposito una domanda a coloro che sono soliti usare queste espressioni: l’essere sé stessi è una rappresentazione della nostra mente o è qualcosa che appartiene alla sfera istintiva? Dovremmo tornare a Freud per darci una risposta e scoprire quanto ci abbiano regalato i grandi pensatori del passato e quanto potremmo dare noi, se solo ci mettessimo sulle spalle dei giganti senza schiacciarli.
Luigi Giannachi - medico e sceneggiatore (Dicembre 2015 - Tutti i diritti riservati©)
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