QUALE TERAPIA?
In una barzelletta di molti anni fa la mamma di un bimbo chiama il medico di base per telefono senza riuscire mai a parlare direttamente con lui. Dovendo alla fine fidarsi dei consigli di tipo tecnico che la moglie del medico giorno per giorno le elargisce alla fine le chiede disperata “mi scusi, ma suo marito che è vicino a lei quale farmaco utilizzerebbe in questa circostanza?” Le barzellette assomigliano per certi versi alle leggende metropolitane con un fondo di verità su cui riflettere. Se c’è qualcosa che soltanto il medico può conoscere, al di là dei consigli di buon senso comune, secondo l’immaginario collettivo non possono non essere che i farmaci da utilizzare nelle varie circostanze. Eppure l’atto terapeutico non si dovrebbe risolvere sempre con i farmaci, ma con consigli riguardanti le abitudini alimentari, l’attività motoria, la regolarità nelle fasi di sonno e nell’attività lavorativa, il nutrimento artistico. C’è forse qualcuno in chi mi sta leggendo che pensa di poter fare a meno della musica o della poesia nella propria vita? Qualcuno che pensa di affogarsi nel cibo in momenti di stanchezza piuttosto che nutrirsi di emozioni? Perché se così fosse questo articolo non fa per voi. Smettete di leggere. Il termine di “terapia” si perde nella notte dei tempi: all’origine vi è una parola greca da intendersi come “servizio reso agli dei con il culto, agli uomini con la medicina, alle piante con la coltivazione”. Il thérapon era “l’aiutante, il compagno d’arme di rango inferiore”. Aiutare il prossimo sembra essere l’azione più contigua all’atto del curare in questo termine che lascia intravedere al suo inizio la parola théos, cioè Dio. Del resto la cura è un termine usato anche per gli oggetti (ad esempio la cura del particolare), mentre qua la si intende come scienza mirata al vivente. Nella terapia così come nell’arte c’è un aspetto visibile di ordine squisitamente tecnico, più scientifico, e un aspetto non visibile che sovraintende alle intenzioni, ai significati, al vissuto del terapeuta e del ricevente. Medico e paziente sono lo specchio uno dell’altro, in quanto entrambe persone umane. Il medico impara ad immedesimarsi nelle problematiche della persona che ha di fronte, cercare nelle armi del suo bagaglio quella più idonea e trovare il modo più consono per svolgere la terapia. Il paziente impara ad individuare le risorse insite nel proprio organismo, divenendo indispensabile la motivazione a guarire e a voler correggere alcune abitudini di vita quando questo sia necessario. C’è un processo di apprendimento continuo reciproco, finalizzato a creare le condizioni perché l’individuo possa armonizzare la sua natura interna e la sua relazione con l’ambiente esterno. Il medico dovrebbe riuscire a mettere il paziente nella situazione di essere parte attiva della sua terapia, così che il paziente capisca di non essere una macchina da riparare, ma un essere umano in grado di fare delle scelte sul proprio destino e, quando ciò sia possibile, guarire o almeno migliorare la propria sintomatologia in modo da essere autonomo nella vita quotidiana. Il rapporto fra terapeuta e paziente non può prescindere da un coinvolgimento empatico, dalla consapevolezza dei limiti e delle capacità di ciascuno, da una relazione continua e non distaccata istante per istante, da una appropriata significazione dei fatti. Se considerato da questo punto di vista difficile dire cosa non sia terapia: la musica, la lettura, la scrittura, parlare, camminare, mangiare e bere secondo la propria costituzione, svolgere attività sportiva, perfino lavorare assecondando le proprie inclinazioni è un ottima terapia. Qualsiasi cosa che modifichi e trasformi la percezione di malessere della persona in relazione al mondo circostante sembra essere una terapia. Vivere dà la forza di vivere. Secondo Ippocrate di Kos, il padre della medicina occidentale, ci sono tre cose fondamentali per il terapeuta: il tocco, il rimedio, la parola. Il rimedio senza la parola e la possibilità di toccare con mano l’organo malfunzionante o la sua rappresentazione energetica potrebbe non raggiungere alcun risultato apprezzabile. Toccare non vuol dire andare e cercare il tocco miracoloso dei guaritori che non esistono, quanto piuttosto saper cercare gli interruttori funzionali secondo codici e riferimenti in base all’interpretazione della sintomatologia e all’evidenza dell’obiettività. Difficile dire se il lavoro del terapeuta sia più scientifico o più artistico, sia più introspettivo o più estrinsecante, sia più analitico o sintetico, sia più olistico o riduttivo. Probabilmente non è arroccandosi dietro posizioni di confine da difendere, né rinchiudendosi in torri d’avorio esclusive che il terapeuta potrà conseguire il senso del proprio operato. Così la persona bisognosa di un trattamento deve innanzi tutto svolgere una critica verso sé stessa e verso quanto gli viene proposto dai terapeuti per filtrare il meglio, quello di cui ha veramente bisogno il suo organismo, e farlo proprio. In questo senso molto più difficile è il lavoro del ricevente, in quanto richiede due abilità non sempre presenti in contemporanea: l’arte della critica e l’arte della scoperta. Fedro ci racconta che Giove ha fornito ad ogni individuo due bisacce, una anteriore e l’altra posteriore. Quella anteriore è sempre sotto i nostri occhi ed è piena dei difetti degli altri, mentre quella posteriore non riusciamo mai a vederla, è piena dei nostri difetti, a noi sempre invisibili.
Luigi Giannachi sceneggiatore e medico esperto in terapia del dolore (neurochirurgia ed agopuntura) |
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