Il nichilismo, Heidegger ed altre questioni Intervista a Costantino Esposito
Il nichilismo in filosofia, secondo i suoi studi. L'argomento a volte è un po' oscuro, se ci potesse dare qualche spiegazione un po' limpida Il nichilismo ha sempre rappresentato una presenza inquietante (l’aggettivo è di Nietzsche) nella storia della filosofia. La sua data di nascita come teoria filosofica può essere individuata con Jacobi, il quale aveva arditamente presentato il nichilismo come il necessario compimento di ogni razionalismo. Il razionalismo per Jacobi è sempre una forma di ateismo perché la ragione si concepisce come misura assoluta della realtà, una misura che si riferisce sempre e solo a se stessa. Ciò ai suoi occhi porta inevitabilmente ad un esito nichilista nel senso del depotenziamento e infine dell’annullamento di tutto il peso ontologico della realtà stessa. Il “nichilismo” nasce quindi come una definizione negativa, o se vogliamo come un’etichetta critica. Ma poi dovremmo senz’altro citare i nomi di due altri grandi interpreti del nichilismo, ossia Dostoevskij e Nietzsche. Essi ci fanno capire che il nichilismo ha sempre avuto a che fare con il problema della salvezza – salvezza nel senso del pensiero e dell'esistenza –, cioè con la possibilità di incontrare o di mancare il peso ontologico delle cose, un peso che è sempre legato al logos cioè alla possibilità (o all’impossibilità) del senso. Da questo punto di vista, a partire dalla fine del XIX secolo, il nichilismo è diventato esplicitamente un protagonista di primo piano nel pensiero filosofico. Ma il nichilismo non si può far risalire al sofista Gorgia da Lentini? Senza dubbio! Già in greco, “logos” diceva (almeno) due cose: la capacità della mente umana di “raccogliere” il darsi molteplice del mondo esprimendolo nella parola, e insieme lo stesso senso con cui il mondo ci appare. Analogamente, in italiano il termine “ragione” dice sia la facoltà conoscitiva dell'uomo, che il fondamento o il significato ultimo delle cose: la ragione del mondo, appunto. Così, per rispondere alla sua domanda, con Gorgia senza dubbio nasce, in senso lato, l’idea di un nichilismo come l'ombra permanente di tutti i tentativi di presumere che la ragione umana possa produrla essa stessa la realtà, possa costruirne essa stessa il senso. Negli autori più moderni, quelli che citavo prima, fino ad Heidegger e alla filosofia post-heideggeriana, “nichilismo” significa invece una cosa più specifica Lei è uno studioso di Martin Heidegger, cosa può insegnarci oggi il famoso e complesso filosofo tedesco del ‘900? Partirei proprio dal problema del nichilismo e dal modo straordinario con cui Heidegger ha letto Nietzsche e ci ha costretti a non intenderlo semplicemente come il decostruttore di certi valori tradizionali del mondo borghese. Certamente Nietzsche è anche questo, però rispetto ad altri interpreti Heidegger ha mostrato che la posta in gioco nel nichilismo nietzschiano è squisitamente metafisica, cioè ha a che fare con niente di meno che con il problema della verità. Non si tratta solo di far fuori i riferimenti metafisici tradizionali – il bene, il vero, Dio, il sovrasensibile ecc. –, ma molto più di ripensare in una nuova metafisica l'essere, la soggettività e il tempo. Questo ci aiuta a capire che il problema del nichilismo non è un problema riducibile a livello sociologico o traducibile solo come un relativismo culturale, poiché esso riguarda più al fondo la possibilità che l'uomo contemporaneo possa ancora, o non possa più, pensare il mistero della donazione dell’essere. Che cosa è la Fenomenologia del possibile riferendoci al suo scritto? È una cosa importante che ho imparato da Heidegger, il quale rimane ancora un grande compagno di pensiero, da cui bisogna passare, anche se poi non lo si condivide Lei lo condivide? Più studio Heidegger e meno mi ritrovo “heideggeriano”. Ma parto da ciò che ho imparato da lui: la necessità di riproporre un problema metafisico fondamentale: quello riguardante il “mistero dell'essere” (la locuzione è di Heidegger). Che poi non è nulla di misterico o meramente ineffabile – come in genere noi riduciamo il senso del “mistero” –, ma si riferisce al pensiero della differenza ontologica. Noi non possiamo appiattire il significato dell'essere sulla mera disponibilità degli enti, intesa come il materiale di una sempre possibile manipolabilità del reale. Noi non possiamo ridurre l'essere solo a “ciò che c'è”, come l'insieme delle singole cose Ha un certo spessore questo essere! È anche una donazione, è una provenienza. È ciò che permette agli enti di essere, ma non può essere ridotto a ente esso stesso. È la “cosa” più concreta ma al tempo stesso la meno oggettivizzabile. Per questo resta centrale la domanda rivitalizzata da Heidegger: che significa essere? Cosa intendiamo dicendo che oggi l’aria è calda? O che Dio è onnipotente? O che la speranza è l’ultima morire? C'è un significato di fondo del'essere? La strada per rispondere a questa domanda risiede per Heidegger in un'interpretazione dell'esistenza umana, del Dasein. Ma Heidegger ha anche indicato altre strade, legate alla prima, quando ha suggerito che il problema della verità dell'essere non è mai astratto ma è sempre un appello, una chiamata rivolta all’uomo, nel linguaggio, nell'opera d'arte, nella tecnica, nella storia (nella storia della filosofia e nella stessa storia del mondo intesa come una sequenza di epoche dell’essere). L'essere non si dà mai a pensare semplicemente come un problema astratto, ma sempre attraverso un’ermeneutica, un'autointerpretazione dell'uomo nel suo modo di essere nel mondo. Ritengo che questa idea di Heidegger costituisca una provocazione permanente per il pensiero della nostra epoca. Al tempo stesso non posso non registrare un distacco sempre più netto, da parte mia, rispetto ad un’altra sua idea, quella che per poter salvaguardare il mistero dell'essere, nell’epoca del dominio della tecnica planetaria e del nichilismo finora nascosto all’interno della stessa metafisica, non si deve più concepire l'essere come “presente”, perché ad essere presenti sono solo i singoli enti determinati, quindi bisogna concepirlo come rifiuto o sottrazione rispetto all’ente. L'unico senso dell'essere sarebbe così il suo ritrarsi: non è che l’essere si ritrae e noi dobbiamo inseguirlo e “riafferarlo”, perché è nella sua stessa ritrazione che risiede la sua unica, possibile manifestazione. Prendendo spunto da Felicità e desiderio ed Errare è umano che sono due suoi scritti divulgativi, le chiedo: che rapporto esiste tra desiderio e felicità? La struttura dell'io è abitata da un desiderio metafisico fondamentale. Il desiderio non si identifica semplicemente con tutta la serie dei nostri bisogni: il desiderio è un bisogno, ma è qualcosa di più. Il desiderio è un bisogno strano, è quasi la tensione di tutti gli altri bisogni, l’attesa di qualcosa che nessuna soddisfazione potrà in qualche modo estirpare. Anche se poi, nella vita quotidiana, noi siamo portati a ridurre questo desiderio, identificando le soddisfazioni ai nostri bisogni come risolutive anche del nostro desiderio Per lei quindi il desiderio è qualcosa che non si esaurisce mai? Sì, infatti quando gli obiettivi vengono raggiunti noi ci rendiamo conto che non solo la partita non è chiusa, ma è ancora più aperta perché, in definitiva, non ci basta niente Quindi il desiderio è la tensione positiva della vita Certo! È non solo bisogno infinito, ma un bisogno dell'infinito. È ciò che dice Cartesio nel Discorso sul metodo: dopo aver frequentato il Collegio di La Flèche con grande profitto ma con scarsa soddisfazione riguardo al raggiungimento una verità certa, egli decide di partire alla scoperta del “gran libro del mondo”, spinto da un “estremo desiderio di saper distinguere il vero dal falso”. E come la tensione di chi tende l'arco per scoccare la freccia. È l'estremo desiderio che sostiene tutti gli altri desideri ed è il desiderio del vero. Il vero è un “oggetto” di desiderio, è qualcosa che c’entra con la dinamica razionale e affettiva dell’io; viceversa, in quanto essere desiderante,l’uomo è una intenzionalità strutturale per la verità E quindi la felicità che rapporto ha con ciò? La felicità è solitamente considerata come uno stadio conclusivo della vita. Ricorderà Aristotele, quando nell’Etica Nicomachea dice che la felicità va pensata come uno stato permanente e definitivo: non basta un singolo momento perché l’uomo raggiunga lo stato di felicità – “una sola rondine non fa primavera” – ed essa è piuttosto un obiettivo da raggiungere tenendo conto dell’intero svolgimento dell’esistenza. E ricorderà anche Agostino, colui che forse più di tutti ha colto il nesso tra il desiderio e la felicità, passando attraverso la sfida del “nichilismo”: nel X libro delle Confessioni egli nota che, se io chiedo una cosa qualsiasi a persone diverse (ad esempio, se vogliono fare il militare), ciascuno mi risponderà sì o no a seconda dei suoi gusti personali; ma se io chiedessi “vuoi essere felice?”, nessuno, in assoluto, mi risponderebbe di no. Agostino si chiede perché ciò avvenga e come si possa desiderare una cosa che non si possiede ancora, come la felicità. Lui afferma che possiamo desiderare la felicità perché nella nostra memoria ne abbiamo già una certa nozione, abbiamo una certa nozione di cosa vuol dire godere, possedere con gusto la vita E come se ce l’avessimo nel codice genetico, per usare un linguaggio contemporaneo Esattamente! Dobbiamo considerare che la felicità non è solo qualcosa cui tendiamo come esito, e cioè che sta alla fine, ma è anche e innanzitutto qualcosa da cui partiamo, che sta all’inizio dell’esperienza. Quando abbiamo percepito per la prima volta lo sguardo di nostra madre, succhiando il latte dal suo capezzolo; quando siamo stati accolti nella realtà nel rapporto con qualcuno che ci diceva “benvenuto!”; quando quello sguardo amoroso ha aperto per noi uno spazio di accoglienza nel mondo – lì abbiamo fatto esperienza della felicità, e per questo in qualche modo noi già sappiamo di cosa si tratta, per poterlo poi desiderare tutta la vita Errare è umano, è una scusa per auto assolversi o un punto di partenza per migliorarsi? L’errore viene inteso normalmente o come l’inceppamento di un meccanismo da cui dobbiamo cercare di liberarci, oppure come una ferita ontologica insuperabile: o è una disfunzione che riusciremo ad aggiustare, oppure è qualcosa da cui non riusciremo mai ad uscire. Per dirlo nei termini della filosofia moderna, l’errore può essere inteso come gli idola di Bacone o come il peccato di Lutero. O nella filosofia contemporanea, l’errore può essere inteso, alla Popper, come una chance euristica di autocorrezione, oppure come il destino dell’“erranza” dell’uomo di fronte alla perdita della verità dell’essere, di cui parla Heidegger. A me sembra, tenendo conto di entrambe queste versioni, che l’errore costituisca la più grande prova dell’esistenza dell’io. È come una chance per ricominciare: esso non potrà mai essere eliminato né a livello epistemologico né a livello morale, ma al tempo stesso rappresenterà sempre una chiamata, una provocazione a comprendere il nostro bisogno di verità Quindi l’errore è un punto di partenza per migliorarsi? Sì, in quanto esso ci costringe a riconoscere che siamo in rapporto con qualche cosa che chiede sempre la nostra libertà per essere conosciuto. Non ci sarà mai una tecnica perfetta che ci faccia conoscere il significato del mondo, come se fosse un atto notarile, proprio perché il significato del mondo è sempre esposto all’errore: chiede sempre la mia libertà, la mia attenzione. Lì posso scegliere di vedere o non veder quello che mi viene incontro Secondo lei che valore ha oggi la Filosofia nella vita quotidiana? E come rimedio contro le difficoltà del vivere? Secondo me la filosofia insegna innanzitutto a domandare, è una capacità di vedere la realtà chiedendosi perché c’è, e che cos’è quello che c’è. Più che essere una tecnica per il “problem solving”, per risolvere problemi, è una posizione che aiuta a porre le domande giuste (che è poi il modo più appropriato per tentare di risolvere i problemi). Questo è il motivo per cui in alcuni settori aziendali è guardato con molta simpatia chi ha fatto bene filosofia La filosofia aiuta ad interrogarsi. Ce lo ha insegnato per primo Socrate Socrate è colui che ci ha aperto la strada, anche per chi ha poi preso una direzione interrogativa diversa dalla sua: tutti noi siamo nel grande solco che lui ha aperto Maria Giovanna Farina Gli ultimi scritti del professor Esposito sono: Una ragione inquieta, ed. di Pagina, e Le avventure della ragione, manuale in tre volumi, scritto con P. Porro, ed. Laterza Condividi i tuoi commenti con noi GRUPPO DI DISCUSSIONE SU FACEBOOK: CLICCA L'ACCENTO DI SOCRATE |
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