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PER  NON   DIMENTICARE

 

Quest’estate, sistemando i cassetti della scrivania, a casa dei miei genitori, tra mille carte, ho trovato una vecchia, consunta e malandata agendina francese del 1942. Sfogliando le sottili e fragili pagine, con mia grande sorpresa, ho scoperto che conteneva annotazioni varie, fatte da mio padre (soldato della II guerra mondiale e prigioniero dei tedeschi): indirizzi, penso,  di suoi commilitoni, nomi di località ceche e della Germania, con relative date (Gorlitz 7-5-45, Tetschen, Aussig 12-5-45, Teplitz, Pilsen, Deggendorf 22-5-45, Campo 8 a Gherlitz). Non nascondo l’emozione che ho provato vedendo che su quelle paginette ingiallite dal tempo, con una matita (forse copiativa), e scrittura appena leggibile, mio padre  aveva lasciato il ricordo terribile e le sensazioni dolorose di quando le SS facevano l’appello dei prigionieri e selezionavano quelli da eliminare. Brividi e pelle d’oca hanno accompagnato la mia lettura! Il breve racconto inizia con queste parole, che riporto nella forma da lui usata: “…. Una delle cose più orribili a cui mi è toccato assistere con i miei occhi, è questa… una mattina viene un sergente tedesco con un foglio di carta in mano e fa l’adunata dei prigionieri. Incomincia l’appello, giunto a un certo punto, si ferma, pronunziando il nome di un mio compagno, questo risponde, lo fa uscire da mezzo a noi e lo mette a parte, così continua e raggiunge il numero di nove. Erano trecento di questo reparto; erano tutti quelli che avevano rifiutato molte volte la proposta di aderire alla repubblica fascista e quelli che erano accusati di atto di sabotaggio, che stavano per essere processati. Questi scelti vennero portati via dalle guardie SS. Un certo numero di noi fu inquadrato e portato dalle guardie armate ai lavori. Quelli non rappresentavano guardie per noi, ma bensì capi boia che avevano in consegna un certo numero di schiavi. Io ero stato assegnato alla squadra dei becchini, per scavare buche al cimitero di Gherlitz e a sotterrare i morti. Così la mattina dopo… si va al cimitero e dopo un’ora di lavoro, viene il carro mortuario… si ferma a 3 metri da noi, chiamano 4 di noi e ci fanno mettere giù le bare. Io, appena giunto al carro, vado per salire su e vedo una bara con il coperchio tolto, quello avveniva solo per quelli che erano stati fucilati: si sotterravano scoperti. Vedo una faccia sconvolta e conosciuta. Mi piego sulla cassa e vedo che era quel mio amico. Mi sentivo straziare il cuore, le lacrime scendevano… mi giravo per non farmi vedere, altrimenti per me erano botte. Vedere simili martirii, l’odio che veniva in me era una cosa che ogni persona se non ha vissuto simile vita, non può giudicare. Avrei voluto sterminare tutti quei cani… Così trascorrevano i giorni pieni di dolore e di ira… Il mio fisico non poteva sostenere uno sforzo, essendo deperito per la scarsità di cibo. La mattina, per andare a lavorare, bisognava attraversare tutta la città, per giungere al cimitero. Il 10 aprile, giunto in mezzo alla piazza principale, ove esiste un albero, giro lo sguardo e vedo all’albero un corpo che stava con il laccio al collo. Che sgomento! Che ira! Non potevo farmi sorprendere da quei cani che mi accompagnavano… il dolore che provavo per un simile spettacolo era immenso. Rivolto lo sguardo giù, camminavo recitando una preghiera per il povero giustiziato…”.

Qui terminano queste prime annotazioni, che ho riportato con qualche correzione ortografica, ma nel pieno rispetto della sostanza. Ho tralasciato (come da puntini sospensivi) qualche termine o qualche frase che non sono riuscita a decifrare. Il racconto si conclude poi con un nome “Platilingr 1945” (sicuramente storpiato, dato che non sono riuscita a trovarlo da nessuna parte). Ritengo si tratti di una delle tappe fatte da mio padre, alla fine della guerra, per rientrare in Italia dai campi di prigionia.

Ed ecco la fine… “Stamane all’alba mi sono messo in cammino per prendere qualche cosa da mangiare, dopo lungo giro per i negozi, mi riesce di prendere un po’ di pane e salame. Alle dodici e mezza incomincia il lungo e faticoso viaggio. Lungo la strada un’immensa colonna di macchine e carri armati ci rende il transito un po’ duro, si sosta per il passaggio e poi si riprende. A circa 5 Km incontro una donna che domanda da dove sono partito e io pronuncio il nome del paese. Ella, dopo scambiate poche parole, mi offre del pane ed è l’elemosina della giornata, saluti e benedizione, come fanno tutte le donne, e si riprende la marcia, così si giunge presso il paese e si pernotta dentro a un fienile, questo è l’unico posto per un mendicante! Dopo percorsi 600 Km a piedi, sosta (….)”.

Finisce qui il racconto, che, come si può vedere nel linguaggio, non è di uno scrittore ma di una persona qualunque.

Mio padre è stato sempre molto restio a ricordare quegli anni di guerra, prigionia e sofferenza, quasi volesse cancellarli. Solo da anziano ci raccontava qualche episodio agghiacciante avvenuto nelle trincee e nei campi di prigionia, oppure ci diceva che mia madre aveva scritto alla regina, perché gli concedesse una licenza per conoscere mio fratello, che era nato mentre lui era soldato. Forse è per questi silenzi che ho voluto sempre documentarmi su quegli anni tremendi della nostra storia, leggendo, il più possibile, tutto ciò che parlava di guerra, campi di concentramento e quant’altro. Mio padre è ancora vivo, ha 99 anni, mi chiedo sempre come abbia fatto ad arrivare a questa età veneranda, dopo tutto quello che ha visto e patito. Ora vive in un mondo tutto suo, non ricorda e non racconta più, ma stranamente sa ripetermi ancora tabelline e preghiere.

In un’epoca, la nostra, in cui si tenta di negare un passato storico che tante pene ha portato, io ho voluto dare voce a chi, in prima persona, ha vissuto quei tragici anni con indicibile sofferenza e dolore, senza colpa alcuna. Almeno questo glielo dobbiamo, per non dimenticare!



Lucia Di Mieri, docente di Lettere

(Testo e immagini, Tutti i diritti riservati©)


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