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Intervista al filosofo Duccio Demetrio

autore del libro La religiosità della terra,

Una fede civile per la cura del mondo, ed. Cortina

 





Il tuo amore per la natura nasce dal fatto che senti di appartenere alla terra?

Mi stupisco che tutte e tutti noi non si avverta questa emozione, non faccia parte degli stati di coscienza i più usuali (anche senza essere agricoltori o amanti dei giardini, degli orti, di un tramonto o di un deserto). Filosoficamente, la terra è il primo cosmo che ci avvolge, ci protegge, si prende cura di noi, ci fa anche paura, ci consente di navigare nello spazio. Genera natura, ne è rigenerata, e noi siamo natura. E quindi è fondamento dell’Essere. Il sentimento di appartenerle equivale alla percezione heideggeriana di “esserci”. Quando apriamo gli occhi, e percepiamo che se esistiamo ancora è qualcosa di lei che attiva i sensi, la memoria, i processi cognitivi. Ciascuno di noi e chiunque ci stia accanto, per suo tramite, si muove, nasce e scompare restando in lei. La terra è legge del divenire e del ritorno. In ogni istante questo ciclo si riproduce come già i presocratici avevano saputo cogliere. La terra è (dovrebbe rappresentare) il nostro primo pensiero, la fonte di ogni pensosità primaria. Ripeto, se questo non avvertiamo, in particolare in alcuni momenti nei quali la sua presenza benigna o terribile si manifesta, credo che sia bene interrogarsi su questa rimozione. Sulla voragine che si apre in noi se non ne accettiamo la lezione. Non ci siamo ancora liberati di un pensiero metafisico che l’ha dimenticata, preferendole il cielo; dei sogni di immortalità, di eternità nella forma umana che ci accade in sorte. Vogliamo obliarla, poiché ci riconduce inesorabilmente alla nostra natura mortale. Non ci concede illusioni di sorta, è spietata, non sa consolarci come e fin dove desidereremmo.

L’incontro con la terra come humus ha fatto nascere anche il filosofo che c’è in te? A partire dalle lenticchie di tuo padre

I lettori che vorranno conoscere la storia del dio delle lenticchie, dovranno aprire il libro alle prime pagine. Questa storia ha segnato profondamente la mia infanzia e non solo. Ho guardato i primi germogli della mia vita con uno stupore che mi pose molte domande, le prime, su quanto cresceva fuori di me e mi parlava di sé aprendomi al mistero di esistere.

Perché avvertiamo il bisogno di occuparci di un piccolo pezzo di terra? Come si fa a destare questo desiderio in chi non lo prova?

Al di là delle passioni per giardini, orti, camminate, paesaggi di ogni genere (ma anche uccelli, animali non domestici soltanto, cieli o nuvole) e in ogni luogo in grado di ridarci il senso di esserle legati inesorabilmente, c’è qualcosa che ci avvince perché il suo richiamo ancestrale ci ripropone una verità. Alla quale sfuggiamo. La terra ci ricorda, e lo sa bene chi ha avuto un’educazione in campagna (grande fortuna), la nostra provvisorietà e finitezza, di incertezza perenne. Ci dà lezioni a livello di stile di vita: il che significa anche sapere che ciascuno di noi non vive soltanto per la morte (ancora Heidegger), ma per non gettare via ogni istante: per goderlo, suggerlo, raccontarlo, ricordalo. Per amare di più chi potrebbe lasciarci per sempre in un istante, per amare di più la nostra tragica coscienza di esistere. Senso del tragico, come in Jaspers, che la terra, la natura, ogni altra creatura ignorano. Nelle mie proposte educative, nelle quali invito adulti infettati dalle città, dallo stress urbano, dalla virtualità ormai sottopelle, a riprendere un contatto fisico con la terra e con quanto ci comunica (camminate notturne, silenziose, meditative, sempre con carta e penna in tasca), quasi sempre accade qualcosa in grado di risvegliarli alla coscienza di non esistere soltanto per sé. Un incontro con la terra mette in crisi la supponenza dell’io, per dischiuderlo agli orizzonti che mai riusciremo a raggiungere e dominare. Nonostante ogni google-art o mappa satellitare. Amare la terra è stare sulla terra ad occhi aperti, è assaporarla nel vento, nel salire e scendere delle maree, nella pioggia come nel sole. Intonando una preghiera senza Dio o dei, di vero ringraziamento per aver incontrato quanto ci offre, ancora una volta senza illuderci. Nella sua disarmante innocenza. La terra è, immagine celebre, un bambino che gioca a dadi.

Cosa intendi con religiosità della terra? Che differenza c’è tra religione e religiosità?

La religiosità per la terra è un sintomo e un’esperienza istintuale universale; senza soggezione a dogmi, a gerarchie, a fondamentalismi guerrieri o che si siano camuffati. A verità che si auto dichiarano assolute. È libertà di pensiero, la religiosità: non sopporta vincoli, dottrine, catechismi. La religione invece è fede in un credo, che nella tradizione ebraica e cattolica, e nondimeno islamica, ancora non si è affrancata dalla voce di un dio onnipotente che maledice la terra per colpa nostra e che ci invita a dominarla sopra e contro tutte le altre esistenze non umane.



Perché la terra ha bisogno di essere narrata?

Nel libro cito più volte Rilke: non soltanto nelle più celebri “Elegie duinesi” ci rammenta che la terra non avrebbe alcun nome, nemmeno il suo, se il linguaggio umano non si fosse impegnato a cercare le parole per denominare e riconoscere la miriade di cose che contiene, manifesta, cela nelle sue viscere. Il poeta dice ”forse siamo nati per dare parole” a questa nostra terra che non ha una voce e una coscienza paragonabile a quella degli uomini, che con il linguaggio le hanno disegnato mappe di ogni sorta: scientifiche, poetiche, artistiche, letterarie. Sull’onda di queste suggestioni dal mese di marzo di quest’anno ad Anghiari prenderà le mosse la prima Scuola di Ecologia narrativa - All’inizio di ogni stagione terremo laboratori teorici e pratici non solo dedicati alle filosofie, alle religioni, alle spiritualità più legate alla terra. Recinteremo orti, uliveti, pezzi di macchia, visiteremo canneti e sentieri per osservare - da una stagione all’altra - la crescita, il fruttificare, l’appassire di piante, foglie, erbe, fiori. Inoltre, ci occuperemo di lanciare una campagna di lavoro autobiografico per raccogliere storie contadine, tradizioni agroalimentari, ricordi d’infanzia legati alla natura. La terra perdendo, soprattutto per nostra colpa, ogni giorno centinaia di specie diverse, animali, vegetali, floreali, ecc, vede disperdersi anche i nomi, i racconti, le narrazioni che noi abbiamo inventato per lei. Le abbiamo dato dignità, l’abbiamo rivestita di linguaggio. Quando ci ha ammutolito con la sua ferocia, le abbiamo risposto con la poesia, la letteratura, la musica, la pittura. Forse inconsciamente per ingraziarcela (i miti pagani a lei connessi non sono affatto tramontati, riemergono sempre anche nelle nostre vicende e memorie personali) quando pensavamo che fosse una divinità senziente, capricciosa, imprevedibile - allo stesso tempo vendicativa, spietata, terribile. Molto somigliante al Dio del I Testamento. L’abbiamo, più che divinizzata, antropoformizzata, dimenticandoci che in essa si nasconde il mistero delle forze vitali che ci fanno essere, dell’energia che si nasconde nei semi che vediamo germogliare anche tra gli interstizi dei marciapiedi. La terra è resistenza al nulla, ci dimostra che il nulla come il paradiso è una nostra invenzione.

 A chi si rivolge il libro?

A chiunque si interroghi sull’esistenza e sul senso che può cercare grazie a quanto la terra ci insegna e ci nasconde. Se alcune pagine non sono adatte per i bambini, altre invece credo possano essere lette loro senza problemi. I bambini e le bambine sono più vicini di noi alla terra. Se si allontanano da questa relazione ancestrale è colpa nostra. Nascondiamo loro le verità della terra, per intontirli con le mistificazioni dei cartoni animati e non solo. Non li mettiamo sull’avviso che il loro futuro dovrà occuparsene, è in atto uno sterminio globale e voltiamo la faccia da un’altra parte per immergerci nell’effimero quotidiano. Il messaggio pedagogico deve essere forte, radicale. E’ un libro per chi, come dico in uno degli ultimi capitoli, è in grado di capire che siamo fatti di terra, polvere, fango. Siamo temporanei e precari, ma proprio per questo - così come la terra ha le sue occulte profondità e la ariamo perché dia frutti - , anche noi siamo chiamati ad un identico esercizio. Per rastrellare e gettar via quanto dentro noi stessi ci impedisce di fare il bene, di tornare a credere nella giustizia e nella bellezza. Per andare alla ricerca dentro i nostri labirinti mentali e del cuore di ciò che ancora non abbiamo capito di noi e del mondo. Per piantare nuovi semi di vita, speranza, creatività.

Secondo la tua esperienza la religiosità verso la terra è maggiore nei non credenti?

 Non so rispondere a questa domanda, posso interrogare me stesso soltanto: penso che nella incredulità ci siano risorse spirituali straordinarie, che anche chi non ha fede, più di molti sedicenti credenti, attraverso il travaglio del dubbio, la ricerca di risposte ai perché estremi che non verranno risolti, manifesti una domanda di religiosità (ben oltre ogni religione rivelata o meno) che non può che essere ritrovata in un metodo agostiniano o pascaliano senza dio. Fondato sull’inesauribile indagare, non solo per sapere ma per imparare ad ammirare, ad ammutolire, a meravigliarsi fino all’ultimo respiro. In una concezione spinoziana, se vuoi, di quel famoso messaggio – deus sive natura – secondo il quale dio coincide con il cosmo. E dove altrove potrebbe abitare? Un dio però certamente alieno da misericordia, pietà, commozione; che però non possiamo assolvere e perdonare. A meno che, in questa epica tragica e cosmica che il racconto della creazione ci offre (che noi abbiamo inventato per mettere ordine nelle società umane, affidando a gruppi di potere la funzione di governare, abusandone, la dimensione sacra) non si inciampi nella figura di Cristo. Il fondatore non solo di una chiesa, ma di un modo diverso di concepire dio. Staccandolo dalla simbiosi con la natura. Perché se non fosse altrove (nascosto nella nostra coscienza) allora questo dio anticristiano come potrebbe non essere colluso con il male? Se penso ad un dio, riesco soltanto a pensarlo come misericordioso, intimo, silenzioso e di poche parole e condannato come noi a non sapere. Ad un dio di gratuito amore. Così come gli uomini lo hanno cercato e reinventato con il discorso della montagna”. “Beati coloro che…” rispogliamo Matteo. Qui vi è grandezza, e nel libro non potevo non evocarne la potenza.

Partire dal cielo per parlare delle terra può apparire strano per un filosofo che si dichiara non credente. Lo è?

Mi sembra un atto dovuto, antico: l’aspirazione ad andare verso l’alto, a scalare le montagne, a liberarsi di innumerevoli impurità, sporcizie, miserie e nefandezze appartiene ad una storia antica. Il cielo simbolicamente, sia esso corrusco o limpido, esprime un desiderio di purificazione. Ma oggi noi sappiamo, e non da oggi, che terra e cielo (e acqua), calore sono un impasto solo. Ruotano insieme. Ho scelto il cielo per iniziare perché è lo spazio che abbiamo rubato agli uccelli, abbiamo cercato di imitarli e li abbiamo distrutti con i pesticidi, la caccia dissennata. Guardare il cielo dalla terra, le sue nuvole, non occuparsene soltanto per capire o meno se pioverà, è un gesto umile da quando abbiamo compreso che, lassù, ai limiti dell’atmosfera e dove tutto si fa buio, non abita nessuno e non ci ha mai abitato.

C’è una difesa appassionata del femminile-materno anche in questo libro…

Dici? Il femminile lo metto sempre al primo posto, sempre, nei miei libri e non solo. Poiché le donne sono più vicine alla terra. Perché amate, o mi sbaglio?, così tanto i giardini, il lavoro nell’orto, i balconi fioriti, gli animali, anche le distese e gli spazi infiniti. Da anni e anni, lavoro ad Anghiari con le donne per aiutarle a scrivere la loro storia, a riscoprire le loro radici esistenziali a lungo occultate, ad occuparsi di chi non sa trasformare in scrittura la propria storia. I maschi mi interessano poco, non sono multi - versi, molteplici, curiosi quanto le donne: che si emancipano, sfidano le consuetudini, sanno guardarsi allo specchio. I maschi si sono allontanati dalla terra per la sua imprevedibilità, i cambiamenti continui, la sua indocilità: è per questo che costruiscono marchingegni diabolici per depredarla, anche per l’ossessione dello sport, per ogni invenzione che li possa allontanare dal pensarsi; coprono le colline di campi da golf; distruggono boschi all’insegna di una terra-schiava costretta a prostituirsi; ne cancellano ogni forma per annientarla con capannoni, città, autostrade. Nel maschile che ha abiurato la relazione con la propria terrestrità ravviso qualcosa di demoniaco e di autodistruttivo. Le donne, le amiche della terra, invece amano la differenza che coltivano in un vaso, sanno guardarsi intorno, si chiedono se la terra da madre non sia diventata una figlia di cui prendersi cura

Cosa ci ha fatto smettere di considerare sacra la terra?

Il fatto che non ne abbiamo più paura e che la riteniamo responsabile di eventi drammatici che siamo noi invece a provocare; distruggendola, profanandola, offendendola (distruggendoci, profanandoci, offendendoci). L’ abbiamo quindi desacralizzata per comodità, per non pensare ai nostri limiti, per far trionfare una supponenza onnisciente e onnipotente. Il sacro è avere il senso del limite, è chinare la testa dinanzi a quanto non vogliamo domare e accettiamo di non capire.

Citi M. Heidegger in Essere e tempo per cui la terra si rivela una Cura. Noi esistiamo in quanto Cura, cosa significa per te?

Un passo indietro alla domanda precedente. Nella favola di Igino, evocata dal filosofo tedesco, la Cura dà forma col fango all’uomo. Lo plasma, in un’assonanza esemplare con quanto raccontato nel Libro della genesi. Il messaggio è inequivocabile: così come le cose d’argilla si infrangono, occorre considerare ogni donna e uomo, noi stessi, come bisognoso di cure. La terra ci offre la materia prima, ma abbiamo bisogno di un’altra entità, prodotta da noi in quanto cura e custodia dell’altro, che ci difenda dal rischio di spezzarci. La cura non può renderci immortali, perché apparteniamo alla terra, ma può renderci però il rapporto anche duro, aspro, ingrato con la madre primigenia di tutti noi, più dolce. Non ha scritto forse il poeta ”La terra sia più dolce per chi l’abbia profondamente amata”?



Il tuo libro ci conduce pian piano alla religiosità della terra, ci convince. Con quale approccio suggerisci di leggerlo?

Affidandosi alla musicalità del periodare, al flusso di coscienza con il quale l’ho costruito nella maggior parte dei capitoli, meditando sulle immagini degli uccelli che mi hanno fatto da mentori nelle sue diverse parti. Suggerisco di leggerne alcune pagine ad alta voce: ora con delicatezza, ora con sdegno, ora affidandosi alle molte citazioni che alimentano la parte più critica e filosofica. E, infine, a cominciare dalle mie evocazioni del dio delle lenticchie, chiederei alla lettrice, al lettore, di evocare i propri momenti aurorali, infantili ma non solo, nei quali senza sapere che la religiosità della terra fosse già in lei-lui, in verità l’andava riconoscendo nella sua natura assolutamente ancora arcana. Il libro va avvicinato dunque anche per accostarsi a quell’ecologia spirituale, chiamata oggi “profonda”, che può spingere credenti e non credenti a rinsaldare un patto quanto mai indifferibile in difesa del pianeta, sempre nondimeno di noi stessi e delle vite che verranno. Un patto che non sia soltanto economicamente sostenibile, tecnologicamente rispettoso, politicamente corretto. Se il nostro ecologismo è alieno da ogni suo rapporto con la filosofia, con la coscienza di esistere, inquieta e impegnata moralmente, come da anni assistiamo, non potrà vincere le sue lotte per una fede civile comune.

Per informazione consultare il sito della Libera Università dell'Autobiografia www.lua.it




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