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TERRA ROSSA



L'aereo aveva cominciato la discesa verso l'aeroporto di Alice Springs, la seconda città del Territorio del Nord, nel Red Center, cuore rosso dell'Australia, così chiamato per il colore del suo deserto, delle montagne e dei canyon; terra degli Aborigeni per antonomasia. Cinzia, che sceglieva sempre il posto vicino al finestrino, vedeva questa vastità senza confini venirle incontro. Ayers Rock, la montagna di arenaria sacra agli Aborigeni che essi chiamano Uluru, a differenza dei colonizzatori. Si innalzava dalla piatta distesa con i suoi 350 metri di altezza, imponendosi anche ad uno sguardo poco attento. I suoi colori erano così brillanti da rivaleggiare persino con quelli fiammeggianti del tramonto che andava approssimandosi. Sembrava ammonisse chi la osservava dall'alto in tutta la sua imponenza: «Ammira la mia bellezza, il mutare della mia colorazione con la luce del giorno, respira e rispetta la mia sacralità». E Cinzia ricordò quanto aveva letto su Uluru, sul suo ruolo particolare nei miti del “Dreamtime” (“Era del sogno”) volti a spiegare l'origine del mondo secondo la cultura del popolo aborigeno. E si sentì inspiegabilmente intimorita e riverente... Il colore della terra, pensò Cinzia, attenta osservatrice, non era un vero rosso in realtà, cioè un rosso acceso quanto piuttosto un rosso tendente all'arancio, punteggiato, più o meno intensamente, da macchie verdi di dimensioni e tonalità diverse. Scoprì poi che le macchie di dimensioni minori erano robusti cespugli spinosi che, talvolta, venivano sradicati dal vento e rotolavano per chilometri sotto la sua spinta. Gli altri rappresentanti di questa povera quanto comunque importantissima vegetazione erano arbusti di acacia, resistentissimi a tutto tranne che ai più lunghi periodi di siccità. Queste due sole specie rappresentavano la maggior parte della vegetazione di questo rosso e ancestrale deserto dal fascino innegabile. L'aereo atterrò al crepuscolo. Le fiamme del tramonto erano scomparse e iniziavano a comparire le prime ombre. L'aria era secca, pertanto il caldo era sopportabile, quasi piacevole. Furono accolti dalla loro guida, Alan, un bianco, alto e dinoccolato con un cappello da cow-boy munito di una strana reticella che in quel momento non copriva il viso ma era ripiegata sulla falda. «A cosa servirà mai quella specie di zanzariera portatile?» chiese Mario alla moglie. «Non saprei – rispose perplessa Cinzia – non c'è neanche un insetto. A quest'ora in Italia ci sono nugoli di zanzare!». La funzione della zanzariera portatile l'avrebbero compresa fin troppo bene il mattino successivo! Erano incuriositi da tanta vastità e diversità rispetto agli ambienti naturali europei. Tuttavia, la stanchezza ebbe il sopravvento e, dopo un pasto frugale, andarono subito a dormire. L'indomani li aspettava una giornata molto intensa. Alle nove del mattino, infatti, puntuale come un gendarme, Alan si presentò nella hall del residence. Mario e Cinzia lo aspettavano già. Erano provetti viaggiatori e sapevano bene che l’accumulo di brevi ritardi dovuti a più persone avrebbe potuto compromettere l’intera escursione. Usciti dall'albergo, Alan si tirò la retina sul viso per proteggersi da nugoli di migliaia di piccolissime mosche, vere mosche non moscerini, che volavano in tutte le direzioni, infilandosi negli occhi, nelle narici e persino in bocca quando si tentava di parlare. Un vero incubo! Cinzia e Mario inutilmente tentarono di difendersi da quella che sembrava una delle sette piaghe d'Egitto sotto lo sguardo divertito di Alan che li fornì immediatamente di cappelli come il suo. Salirono sul pulmino dove c’erano già altri escursionisti e si avviarono verso la loro meta. Quel giorno il tour prevedeva la visita ad un villaggio di aborigeni per conoscerne le abitudini di vita. Cinzia osservò i compagni di viaggio: un'anziana coppia francese; una famiglia giapponese con due ragazze sui vent'anni e una giovane coppia inglese con una ragazzina di circa otto anni che attrasse immediatamente la sua attenzione. Era bellissima. La classica bellezza anglosassone ma dai colori ben definiti non slavati: pelle chiara, capelli biondissimi, nasino all'insù, occhi d'un azzurro intenso che ricordava il colore del mare all'orizzonte. Giocava con una “Barbie”. Dopo una mezz'ora di cammino, durante la quale ebbero l'opportunità di apprezzare il paesaggio appena intravisto la sera prima, giunsero al villaggio. Gli aborigeni erano vestiti all'occidentale ma con abiti piuttosto modesti e logori. I bambini indossavano solo dei pantaloncini. Erano di pelle molto scura, sulla quale spiccavano i denti bianchissimi; i capelli, corvini e folti, erano spettinati e disordinati. I visitatori si sedettero sullo sterrato, in semicerchio e gli uomini iniziarono la loro esibizione col classico lancio del boomerang, dando prova effettivamente di grandissima abilità mentre Alan spiegava ai turisti le caratteristiche e i vantaggi di quel tipo di caccia ancestrale. Cinzia, pian piano, quasi senza accorgersene, si estraniò da quel contesto. La sua attenzione, infatti, fu attratta dalla splendida bimba inglese, di cui aveva appreso il nome, Joyce, che giocava con un bimbo aborigeno. La scena di cui fu spettatrice la rapì completamente. I due ragazzini, leggermente in disparte rispetto al gruppo, sembravano voler costruire un rifugio alla bambola scavando con le mani nude nella terra. Una bimba inglese ed un ragazzino aborigeno del centro dell'Australia, che si incontravano per la prima volta nella vita, giocavano insieme e si divertivano da matti! Come un colpo di boomerang, quella scena la folgorò. Ne rimase sconvolta. Le sembrò di non aver mai visto giocare due bimbi in tutta la sua vita. Quello che colpì Cinzia, e sul quale tornò a riflettere tante volte successivamente, fu la perfetta intesa tra i due bambini che, oltre ad essere completamente estranei, non avevano mai condiviso nulla! Non parlavano la stessa lingua, non avevano avuto gli stessi giocattoli, la loro educazione era stata evidentemente improntata a modelli comportamentali completamente diversi, eppure si divertivano con l'intesa di due bimbi cresciuti insieme ed avvezzi a condividere i giochi: uno iniziava un'attività, l'altra lo osservava un attimo e lo imitava, alcune volte lo anticipava e così via. Parlavano, si, è ovvio, veniva loro istintivo ma non era per quello che si capivano. E ridevano. Ogni tanto si udivano squilla di risatine argentine che richiamavano l'attenzione del gruppo e della mamma della bimba che la guardava con tranquillità. C'era un modo di intendersi fra quei ragazzini che a Cinzia sfuggiva. Riflettendo, comprese che tale intesa poteva essere dovuta solo alla comunanza dell'età e al gioco. Il gioco li stimolava a socializzare, a condividere emozioni e creatività; in esso ognuno riversava il proprio bagaglio culturale senza prevaricazione alcuna dell'altro. E allora a Cinzia, come in un film, passarono davanti agli occhi le scene di secoli di massacri e di guerre civili, di epurazioni etniche, di stupri e atrocità indicibili, di eliminazioni di intere popolazioni: la colonizzazione spagnola del continente americano, l'olocausto degli Ebrei, gli arabi contro gli israeliani, gli Hutu contro i Tutsi, lo sterminio degli indiani d'America e poi ancora i Turchi contro gli Armeni, i massacri delle Foibe, e ancora, ancora, ancora... Questi non sense della storia le si affollavano in mente senza un ordine cronologico, si spingevano l'un l'altro per farsi largo in quella povera testa che stentava a capire, che non voleva comprendere come tutta la storia dell’umanità avrebbe potuto essere diversa se l'uomo non avesse obbedito al dio denaro e al suo desiderio di prevaricazione e si fosse semplicemente comportato come un bambino desideroso di giocare alla vita. Sentimenti contrastanti le invasero il cuore: ira, dispiacere, vergogna, addirittura pietà per un'umanità così cieca e ottusa. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Il marito si accorse che era distratta, la chiamò e la guardò in viso, poi stupito e preoccupato, le chiese: «Che fai? Piangi?» «No – rispose Cinzia tentando di tranquillizzarlo – Mi è andata negli occhi la polvere sollevata dai bimbi che giocano». La risposta era plausibile e Mario non chiese altro. Il programma prevedeva che il pomeriggio venisse trascorso liberamente e la giovane coppia gironzolò nella piuttosto squallida cittadina di Alice Spring aspettando di vedere la montagna di Uluru fiammeggiare al tramonto per scattare splendide foto di rito. Il mattino seguente, con compagni di viaggio diversi ma con la stessa guida, furono portati in una zona dove dominava la caratteristica e povera vegetazione tipica di quella regione del deserto australiano. Si sedettero sotto un'acacia, come al solito in semicerchio: al centro c'erano una coppia di aborigeni e la guida. Gli aborigeni si nutrivano di tutto ciò che cacciavano con il boomerang e di quello che riuscivano a "trovare". Quel giorno, infatti, sarebbero stati mostrati ai turisti altri insoliti componenti della loro dieta, dove e come venivano procurati ed, eventualmente, cucinati. Faceva bella mostra di sé un ceppo di legno dalla corteccia spessa e un po' marcia. L'uomo, aiutandosi con un utensile di legno ricavato dalle radici dell'acacia, iniziò a sollevare la corteccia. Decine di insetti e millepiedi cominciarono a fuggire in ogni direzione. Egli non li raccolse tutti, prese solo quelli più grossi ed una larva bianca (almeno così spiegò Alan) lunga e spessa quanto un dito mignolo. Questa, infilzata su di uno spiedino di legno, venne arrostita su di un fuoco acceso lì per lì a quello scopo e offerta a qualche intrepido turista che si fosse offerto di assaggiarla. Lo fece, chiudendo gli occhi, una giovane donna francese, tra gli applausi degli scettici e leggermente disgustati spettatori. «E' buona – commentò meravigliata – ricorda vagamente il sapore del pollo». Assistettero alla scena, oltremodo divertiti, cinque o sei ragazzini di età compresa tra i sette e i dieci anni. Quando la dimostrazione del pasto, piuttosto magro per la verità, fu completata, i turisti furono liberi di passeggiare nei dintorni. Intanto s'era levato un vento sostenuto e i cespugli spinosi cominciarono a rotolare come palloni lasciati incustoditi sulla spiaggia. Cinzia decise d'inseguirne uno. Era incredibilmente veloce, quasi fosse animato. Quando lo raggiunse, col fiato grosso, nel fermarlo si riempì le mani di spine. Il marito le rivolse uno sguardo che era insieme di rimprovero e compatimento, quasi volesse dirle: «Ti comporti come una bambina!». La corsa aveva messo a Cinzia un discreto appetito e, poiché l'ora della colazione al sacco era ancora lontana, frugò nella sua borsa alla ricerca dei tipici torroncini siciliani che s'era portata dall'Italia, dono di amici di Catania, per usarli come spuntini in situazioni come quella. Ne scartò uno e, immediatamente, si sentì osservata. I bimbi aborigeni le si erano avvicinati in silenzio e educatamente per osservare quello strano alimento. Nel guardarli, Cinzia non ebbe più il coraggio di mangiare il torroncino. Cercò ancora nell'enorme borsa e ne tirò fuori altri tre. I ragazzini erano molti di più; pertanto, le fu subito chiaro che non ne avrebbero mangiato uno a testa. Tese verso di loro la mano con i quattro torroncini con palese intenzione di volerglieli donare. Quello che sembrava il più anziano del gruppetto, le si avvicinò, li prese e ringraziò con un cenno della testa, quindi si allontanò. Cinzia si aspettava che sarebbe fuggito via con il suo "bottino" inseguito dagli altri rimasti senza. A scene simili aveva talvolta assistito nei quartieri poveri delle città italiane. Invece, avvenne quello che non si sarebbe mai aspettata e che avrebbe ricordato per tutta la vita. Il ragazzino che capeggiava il gruppo contò i suoi compagni, quindi scartò i torroncini e li divise in tanti pezzettini quanti erano i suoi amici, affinché ognuno di loro ne avesse almeno uno. Il tutto avvenne in silenzio e in perfetto ordine, come se si trattasse di un'abitudine consolidata. Nessuno reclamò più di quello che ebbe o tentò di appropriarsi della porzione di un altro. «Ecco – disse la donna al marito – solo così hanno potuto sopravvivere queste popolazioni in una regione tanto ostile e avara di cibo!». «Spiegati meglio – la rimbrottò il Mario – sei sempre enigmatica!». Cinzia, allora, esplicitò il suo pensiero: «Voglio dire che solo dividendo equamente fra loro il poco cibo che hanno sono riusciti a sopravvivere. In caso contrario, probabilmente, ci sarebbero state liti, forse guerre fra le varie famiglie, che avrebbero potuto comportare anche l'estinzione dell’intera popolazione». «Hai ragione – riconobbe Mario – non ci avevo pensato» e continuò «eccoci servita una bella lezione di civiltà, a noi europei che ci siamo sempre ritenuti superiori!».

Il viaggio continuò con la visita di regioni e habitat per loro nuovi e straordinari, come la Grande Barriera Corallina, con pesci e coralli dai colori spettacolari e il parco nazionale di Darwin con i coccodrilli che costruivano enormi nidi sulle rive dei fiumi. Tuttavia, quello che Cinzia "imparò" nel deserto rosso del cuore dell'Australia non l'avrebbe appreso mai più in nessun'altra parte del mondo in cui si sarebbe recata. Soprattutto la solidarietà tra i ragazzini rappresentò una lezione indimenticabile per lei, tanto che, quando i figli che ebbe anni dopo si contendevano qualcosa, si scopriva a redarguirli, senza peraltro dare alcuna spiegazione e, quindi, sotto il loro sguardo interrogativo: «Non litigate, fate come i bambini aborigeni!».

Ester Cerere (Febbraio 2018- ©Tutti i diritti riservati)

 

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