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I sogni per il filosofo



Intervista a Walter Cavini, docente di Filosofia Antica all’Università Alma Mater di Bologna

 

Professor Cavini, come docente di filosofia antica e studioso cosa l’ha spinta a occuparsi del sogno?

Quando ho iniziato a occuparmi del sogno nella filosofia antica avevo un interesse esclusivamente filosofico. Ero rimasto colpito da un argomento che avevo letto per la prima volta nel Teeteto di Platone, un argomento che Socrate solleva nei confronti del giovane matematico Teeteto chiedendogli: «Come fai a sapere che ora stiamo discutendo e non stiamo sognando di discutere? Ovviamente per te sarà del tutto evidente che stiamo discutendo e non sognando di discutere. Quindi se la cosa è così evidente, potrai dirmi perché è così evidente, non dovrebbe essere difficile». E Teeteto, giovane matematico promettente e intellettualmente onesto, risponde che no, la cosa a sua avviso è insolubile, non è in grado di darne una prova certa. Mi ha colpito questo argomento perché è anche l’argomento che leggiamo nella prima Meditazione di Cartesio, che inaugura la filosofia moderna; è un argomento che attraversa la filosofia antica e moderna fino agli ultimi appunti che Ludwig Wittgenstein stese prima di morire e che riguardavano appunto l’argomento scettico del sogno. Quando Socrate solleva la questione del sogno nel Teeteto, chiedendo al giovane matematico se ne avesse sentito parlare, egli risponde che ne aveva sentito parlare molte volte: era un argomento molto discusso nella filosofia greca.

Perché ha destato il suo interesse?

Mi ha colpito la risposta nel Teeteto, che portata qui e ora suona come: «Per me è del tutto evidente che stiamo discutendo nel mio ufficio e non sto sognando nel mio letto». Se dovessi dire che cosa distingue i sogni del sonno dalle percezioni della veglia, la cosa si farebbe molto difficile, come hanno dimostrato i vari tentativi di soluzione o dissoluzione del problema, antichi e moderni. Poi mi ha indotto a chiedermi qualcosa di meno ovvio sulla natura del sogno, perché l’argomento scettico del sogno si basa sul principio della indiscernibilità dei sogni dalle percezioni della veglia. È chiaro che noi possiamo fare dei sogni poetici, possiamo sognare sogni lontani dall’esperienza della veglia. A questo proposito, non molti notti fa ho fatto un sogno d’angoscia: non riuscivo a respirare e, nel sogno, per poter respirare una voce mi chiedeva la password.

L’informatica entra prepotentemente nella nostra vita!

Evidentemente i sogni hanno anche a che fare con la cultura. Ovviamente nel sogno non conoscevo la password! E mi sono svegliato urlando. Ci sono sogni poetici, possiamo sognare gli ippogrifi dell’Ariosto o che in questo studio entri un elefante rosa o che qualcuno mi chieda la password per poter respirare, ma dobbiamo ammettere che ci sono anche sogni assolutamente prosaici: posso sognare di essere nel mio studio, di fare una lezione o di fare una passeggiata. Il punto è: che cosa distingue sognare di essere nel mio studio da essere nel mio studio? È quello che gli antichi chiamavano indiscernibilità dei sogni dalla veglia. Ho poi ho approfondito l’argomento alla luce dell’indiscernibilità. Quando sogniamo noi abbiamo delle credenze. I sogni sono considerati delle immagini mentali, questa era la teoria classica. Gli antichi avevano due teorie del sogno: il cosiddetto sogno esterno, che poteva provenire dagli dèi o dalle cose del mondo, come in Democrito ed Epicuro, oppure il sogno era considerato un’immagine mentale. Aristotele usa il termine phántasma (φάντασμα), ma che tipo di immagine è il sogno? Ci sono tanti tipi di immagini. Anche quando fantastichiamo su qualcosa ci formiamo delle immagini mentali, ma sono immagini volontarie e siamo consapevoli che si tratta di immagini e non delle cose stesse: noi possiamo sognare a occhi aperti di essere ricchi e famosi, ma questo non ci rende ricchi e famosi. Nel sogno no. Nel sogno crediamo di stare vivendo quella situazione veramente. Sì, perché l’immagine onirica, o come si dice oggi la narrazione onirica, non si presenta come un’immagine, non si presenta come l’immagine di qualcosa, ma come la cosa stessa. Il nostro comportamento nel sogno non è quello di chi, ad esempio, sta visitando un museo e osserva consapevole che si tratta di immagini, quadri o sculture. No, il nostro atteggiamento, come ha sottolineato in un bellissimo libro sulle immagini mentali un filosofo inglese contemporaneo, Colin McGinn, è quello del lettore immerso nella lettura e che si immedesima nella storia. A differenza del lettore immerso in una lettura e che si immedesima nella storia, nel sogno non c’è l’occasione per rendersi conto che stiamo leggendo una storia e non siamo i protagonisti della storia: quando leggiamo può squillare il telefono, che ci richiama alla realtà.

È un atto di volontà, quando sogno a occhi aperti, perché scelgo di farlo.

Esatto, le immagini mentali dell’immaginazione sono il prodotto dell’attività dell’immaginazione, che è volontaria: io posso decidere di immaginare qualcosa e smettere di immaginare qualcosa. Nel sogno l’immaginazione non è interrotta dallo squillo del telefono o dal fatto che mi rendo conto che ho un libro tra le mani; è come se fossimo un lettore immerso profondamente in una lettura, che non ha occasione di rendersi conto che ha di fronte un libro o può essere distratto da qualcosa o da qualcuno, a meno che non sia svegliato. L’immagine onirica è un’immagine illusoria che però cela la sua natura di immagine.

Quindi Freud è giunto alla sua teoria sul sogno sicuramente lavorando su tutto il materiale antico che era in suo possesso come studioso. È stato bravo a metterlo insieme tutto...

Sì, certo. Ricordo di aver tenuto un seminario con Michele Ranchetti, curatore dell’opera di Freud, sulla natura del sogno in filosofia e in psicoanalisi. Ho appreso moltissimo da quel seminario, e per questo ho studiato attentamente l’Interpretazione dei sogni di Freud e sono rimasto colpito dall’elogio che l’autore fa dei tre trattati aristotelici dedicati al sonno e al sogno. L’espressione che Freud usa, Tagesreste (residui diurni), come la causa immediata dei nostri sogni, è in qualche modo ripresa da Aristotele, che parla di residui delle percezioni diurne come quelle che la fantasia elabora nel sogno.

Qual è la differenza?

Una differenza importante è questa: Aristotele è colpito dalla natura dell’immagine onirica, del phántasma, vale a dire un’immagine illusoria che cela al sognante la sua natura di immagine, e si chiede perché. Perché nel sogno crediamo non di vivere una narrazione, ma...

Una realtà vera.

Esatto! Si chiede perché siamo creduli, mentre di fronte alle immagini mentali dell’immaginazione diurna, per esempio, manteniamo un distacco e una consapevolezza. Questo problema dell’inganno onirico, in Aristotele, riceve a mio avviso una soluzione insieme semplice e profonda: ci lasciamo ingannare dai sogni perché siamo in uno stato di alterazione. Aristotele si chiede: quando ci dimostriamo più creduli? Quando abbassiamo le nostre difese critiche nei confronti del mondo? Quando siamo soggetti a una forte emozione o a una forte alterazione, come l’ubriachezza. Il sogno è un’immagine che si forma in uno stato di alterazione, cioè nel sonno.

In quanto durante il sonno non si è coscienti.

Esatto! È uno stato di alterazione rispetto alla vita vigile. L’altra conseguenza che ne trae Aristotele – Freud stesso riconosce che Aristotele è il primo ad aver affrontato il sogno in modo profondo – è che il sogno ha un’essenza ma non ha una funzione. Mentre il sonno è uno stato di alterazione naturale che mira alla conservazione della vita attraverso il recupero delle forze, il sogno sarebbe una sorta di residuo concomitante. È come un residuo, uno scarto.

È quello che dice Alan Hobbson nella Macchina dei sogni, forse ha ripreso Aristotele?!

Ah, sì. Certo. In Freud no: per Freud il sogno ha un essenza e svolge una funzione nella vita mentale degli individui; anzi per Freud il sogno è il guardiano del sonno, quindi un sostegno per il sonno.

Si può trovare una mediazione tra queste due posizioni estreme?

Ad esempio nel libro di Colin McGinn Mindsight (Visioni mentali), libro che consiglio a chiunque si voglia occupare di immagini mentali, di veglia e di sonno, l’autore riprende un’intuizione di Sartre in un suo saggio sull’immaginario: il sogno è una narrazione e noi ci immergiamo in questa narrazione come durante la veglia ci immedesimiamo nella narrazione di un romanzo o di un film. È una sorta di piacere narrativo.

E poi diventa un’autonarrazione.

Sì, perché, come afferma Freud, e Aristotele – ma ancor prima lo si trova in un frammento di Eraclito – il sogno è egoista o egocentrico: noi siamo sempre sulla scena. Un sogno altruistico non è la norma. Eraclito in un frammento dice: «Quando siamo svegli ognuno di noi abita un mondo comune, quando dormiamo ognuno si rivolge a un mondo privato». Credo che tra la tesi freudiana e quella aristotelica la mediazione potrebbe essere, come direbbe Aristotele da grande mediatore concettuale qual era, che in un senso il sogno svolge una funzione, in un senso no.

Cosa può darci oggi Platone?

Dobbiamo a lui molte cose. Se dovessi dire la cosa per cui mi sento più debitore nei suoi confronti è la figura di Socrate come solo Platone la delinea nei dialoghi cosiddetti «socratici» e nell’Apologia. Quella è la figura di Socrate che ha ispirato la filosofia europea.

Secondo lei è un errore portare nell’oggi il metodo socratico? È valido ancor oggi il suo insegnamento?

Se qualcosa è vero, è vero sempre. Se qualcosa è interessante per noi, sia del passato sia del presente, non vedo francamente quale differenza il tempo possa fare. Il teorema di Pitagora era valido nel VI-V secolo a.C. e mi risulta sia valido ancor oggi. Lo stesso per la logica aristotelica. Per quanto riguarda acquisizioni più sfumate come il dialogo socratico, era un modo interessante di fare filosofia e per la mia esperienza lo è tuttora.

Perché è interessante?

Lo è anche dal punto di vista didattico, di trasmissione del sapere filosofico, del sapere come fare filosofia, del sapere procedurale, cioè del filosofare. Intanto presuppone che fare filosofia sia una relazione a due, cioè presuppone che tu abbia un interlocutore di fronte, anche quando pensi. Platone dà la definizione di pensiero nel Teeteto e nel Sofista: il pensiero è un dialogo silenzioso dell’anima con se stessa. Dialogo! In fondo anche noi quando pensiamo ci poniamo domande e tentiamo di dare delle risposte, e pensiamo finché non abbiamo trovato una risposta. Filosofare come Socrate richiede un interlocutore. L’altra cosa interessante, anche dal punto di vista didattico, è che nel dialogo socratico si procede a partire dalle credenze dell’interlocutore; non è la trasmissione di un sapere, non riguarda la conoscenza del mondo, ma le nostre credenze sul mondo, vere o false che siano.

Che vanno messe in discussione.

Sì, per vedere quali sopravvivono all’esame e quali no. Questo è un metodo di cui, a mio avviso, neanche oggi si può fare a meno. Gli uomini di allora sono diversi per le abitudini, i gusti, per esempio la cucina. I loro esempi saranno tratti da altre storie.

Non dalla password come il suo sogno.

Esatto, un filosofo antico non sognerà di poter respirare solo se riesce a dare la password. Ma interrogarsi su cosa sia giusto o ingiusto, su quali decisioni prendere, su come vivere o che cosa sia vero o falso, beh, questo non richiede di essere vestiti in un certo modo; o di andare al cinema a vedere un film anziché nel teatro di Dioniso. Non è questo che ci distingue. Il metodo socratico, il principio che filosofare ha a che vedere con le nostre credenze sul mondo, credenze che ci formiamo ma che non sappiamo a partire da quando, il dialogo socratico insomma ti permette di analizzare te stesso in un modo intelligente. È un atteggiamento filosofico che trovo nei migliori insegnanti di filosofia che ho conosciuto. C’è una differenza: che oggi non abbiamo uno scrittore come Platone.

Eh, ci manca. Soprattutto non copiava da nessuno.

Semmai direi che i moderni hanno qualcosa in meno rispetto agli antichi.

Lei si è occupato di plagio, che valore ha il plagio per un filosofo?

Platone fu accusato di plagio: avrebbe copiato la Repubblica da Protagora.

Ma è vero?

No. C’è però una tradizione antica, sfavorevole a Platone, che lo ha accusato fra le altre cose anche di furto intellettuale. Il plagio è un furto. Nessuno di noi ama essere derubato, e quindi sarebbe bene che nessuno rubasse: fa parte dell’etica della vita e non solo della professione. Il plagio assomma molti aspetti negativi. Prima di tutto è un furto, un furto deplorevole perché derubare una banca richiede comunque un certo rischio e del coraggio, nel caso del plagio invece è vile. In secondo luogo, è un inganno del lettore. In terzo luogo, è un’ingiustizia verso la grande maggioranza degli autori, che non copia – ed è ciò che dico anche ai miei studenti. In quarto luogo, soprattutto per un filosofo... Dico ai miei studenti: voi vi iscrivete a Filosofia, leggete l’Apologia di Socrate di Platone, ma con quale coraggio copiate? Con che coraggio per soli sei crediti formativi copiate?!

Quali sono le sue prossime pubblicazioni?

Stanno per uscire, entro quest’anno, Quindici lezioni su Aristotele, scritto a quattro mani con Mario Vegetti, e una nuova traduzione annotata del Teeteto insieme a Simonetta Nannini, entrambi per Einaudi. Il libro a cui lavoro da tempo è quello sull’argomento scettico del sogno: dopo i due libri che devo finire per Einaudi, devo veramente finire il libro sui sogni, perché non resti un sogno!

Maria Giovanna Farina

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