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Scrittura e Teatro nella cura dell’altro

Nel mio precedente contributo all’Accademia del ben-essere ho concluso riflettendo su quanto possa essere utile lavorare sulla produzione linguistica scritta del cliente perché da essa si possono trarre utili informazioni sull’organizzazione mentale dell’altro. Inoltre, creando “storie” è possibile, per il cliente, dare voce ai fantasmi che popolano l’inconscio. Come dire: le storie ideate dai clienti possono rappresentare un valido strumento per accedere alla loro mente, sia nei suoi contenuti che nelle sue forme. Adesso credo che bisognerebbe compiere un altro passo e riflettere sul fatto che se vogliamo immaginare un nuovo metodo, un approccio alla cura che sia flessibile e integrato, allora diventa interessante chiedere aiuto e supporto anche ad altre discipline, ad esempio il Teatro. Alle interviste, quanti attori e quante attrici confessano che il lavoro artistico li aiuta a fronteggiare meglio le proprie nevrosi? Quante volte ammettono che salire su un palco (e talvolta anche andare sul set di un film) sia catartico e che, in alcuni casi, gli risparmia di andare in analisi? Accade parecchie volte. Aristotele, da questo punto di vista, aveva già detto tutto, anche se lui si riferiva soprattutto agli spettatori. Noi possiamo osservare come questo processo sia valido anche per l’attore, che, impersonando un ruolo, ha la possibilità concreta di prendere le distanze da sé e di calarsi in una situazione molto diversa dalla propria, incarnando, nel vero senso della parola, personalità e caratteri distanti dai propri. Suppongo che recitare per molti sia terapeutico perché la finzione scenica può portare a mettere in atto parti di sé spesso nascoste e addirittura negate. Nella finzione ci si può permettere di essere ladri, assassini, santi, prostitute, medici, poliziotti, invidiosi, generosi, buoni o cattivi oppure buoni e cattivi allo stesso tempo, che è poi più realistico. E chi si cala fino in fondo dà libero sfogo a queste immagini di sé spaiate e nascoste e può fingere che sia solo una finzione, scusate il gioco di parole! Il Teatro consente dunque una messa in scena controllata di ciò che si annida nell’inconscio, sia quello personale che collettivo. I grandi sceneggiatori, i grandi registi attingono infatti agli archetipi collettivi ed ecco che le loro opere piacciono poi universalmente. Ciascuno vi riconosce, anche inconsciamente, parti di sé arcaiche e forse ancora poco sviluppate. Tornando al metodo, potrebbe essere interessante chiedere al cliente di scrivere una storia di getto, per poi analizzarla nelle sue componenti stilistiche (perché lo stile denota già, agli occhi dell’esperto, aspetti dell’organizzazione mentale dell’altro e il suo modo di costruire la realtà) e contenutistiche. Riguardo a queste ultime, il terapeuta potrebbe chiedere al cliente di scegliere delle parti che gli sembrano significative e poi di “metterle in scena”, anche in maniera semplice. Creando personaggi e situazioni, il soggetto ha l’opportunità di tirar fuori, ancor di più rispetto alla semplice scrittura, i propri vissuti, le sensazioni, le immagini interne più celate e questo può avvenire suo malgrado. Le immagini che emergono in uno stato di “reverie” non necessariamente il cliente ammetterà che gli appartengono nel profondo. Starà alla competenza del terapeuta guidare l’altro a riappropriarsene gradualmente e coscientemente, attraverso un intenso lavoro anche sul comportamento non verbale. Ma in primo luogo il terapeuta deve saper mettere il cliente a proprio agio, “scaldarlo”, rassicurarlo, guidarlo e fermarlo al momento opportuno. È importante che il terapeuta non lasci l’altro con risposte sature alla fine dell’incontro. È bene che il cliente vada via con delle domande irrisolte, ma di questo e di altri aspetti parleremo la prossima volta. 


Eleonora Castellano, docente e psicologa

(Tutti i diritti riservati©) www.eleonoracastellano.com 

socia fondatrice dell'associazione culturale L'accento di Socrate



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