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Pensiero e linguaggio, matrimonio d’amore?

 

Quale rapporto c’è fra pensiero e linguaggio? È il pensiero a condizionare il linguaggio o è vero il contrario? Si tratta di uno scambio vicendevole oppure le due funzioni rimangono confinate ciascuno nei limiti della propria sfera d’azione? E il più ampio contesto socio/culturale in cui sono inseriti che relazione intrattiene con entrambi? Sono temi, questi, che hanno attraversato la storia della Filosofia e che hanno dato filo da torcere anche agli psicologi, psichiatri, neuropsichiatri e cultori delle neuroscienze. Oggi, sfogliando manuali, riviste specializzate e saggi monografici ci rendiamo conto che abbiamo accumulato una moltitudine di studi e che non sempre è facile barcamenarsi in essi. Cerchiamo, allora, in maniera semplice e senza pretesa di completezza, di chiarire qualche punto e di tirarne fuori delle riflessioni che possano essere feconde per la cura della persona. La parola è ciò che ci rende pienamente umani. Questo lo considererei un punto di partenza e non ci dovrebbero essere grosse obiezioni al riguardo. Anche gli animali comunicano, ma qui facciamo riferimento alla comunicazione verbale, che usa simboli e fornisce strumenti al pensiero per distaccarsi dall’immagine concreta e “volare” nel mondo dell’astrazione.  Nel corso dei millenni le varie comunità umane hanno via via formalizzato sistemi linguistici molto diversi fra loro, a seconda delle zone geografiche e della storia vissuta. È abbastanza condivisa l’idea che la lingua parlata influenzi la strutturazione del pensiero, così come il pensiero si riversa a sua volta nel linguaggio e si rende palese. Faccio qualche esempio, anche banale, per intenderci. Non è indifferente, a mio avviso, che in inglese il soggetto non si possa sottintendere, mentre in italiano sì. E che il verbo “piacere” (“to like” in inglese) implichi una diversa costruzione: in italiano il soggetto delle frase è la cosa che piace, in inglese lo è sempre la persona che prova il sentimento del piacere. Inoltre, in inglese “io” (“I”) si scrive rigorosamente in maiuscolo, guai a scriverlo in minuscolo. È solo un caso oppure queste scelte linguistiche trovano senso nella storia di un Paese specifico e particolarissimo? Pensiamo ad esempio al fatto che gli inglesi sono gli unici ad avere il posto di guida a destra e a guidare sul lato sinistro della strada. L’Inghilterra non ha aderito all’euro e via discorrendo; gli esempi potrebbero essere tantissimi ed esprimono una coerenza. E che dire di quelle lingue che non prevedono termini per indicare i colori, se non “chiaro” e “scuro”, e di quelle che invece contemplano ben quaranta modi per indicare la “neve”? Come dire: le scelte linguistiche non sono mai casuali all’interno di una Comunità e la stessa cosa vale anche per i singoli. Questo lo sanno bene tutti coloro che, a vario titolo, si occupano della cura dell’altro: psicologi, psicoterapeuti, counselor, psichiatri, consulenti filosofici. Chi lavora al fine di aiutare l’altro a costruire il proprio benessere sa che va prestata particolare attenzione all’uso delle parole, alla costruzione delle frasi, alla sintassi del discorso. Chiaramente non per valutarne la perfezione grammaticale, quanto per cogliere aspetti importanti del modo di pensare della persona che si ha di fronte. Perché il linguaggio palesa il pensiero, e credo che su questo non ci siano dubbi di fraintendimento. Chi si occupa dell’altro ha, tuttavia, bisogno di leggere fra le righe e dentro le righe. Il lapsus, la distorsione, la dimenticanza, il non detto, lo sappiamo, ci danno molte più informazioni rispetto a quello che viene razionalmente detto. Ecco che il terapeuta e il counselor hanno necessità di cogliere proprio le falle e le lacune del linguaggio, le frasi spezzate a metà come gli interminabili giri di parole. Il tutto, ovviamente, all’interno di una lettura globale della comunicazione del soggetto. Attenzione quindi agli aspetti paraverbali (tono, volume di voce, incrinatura, accentuazioni, affettazioni ecc) e a quelli non verbali del discorso (postura, orientamento fisico, atteggiamento, movimenti ecc), che spesso sfuggono al controllo cosciente e sono molto più rivelatori del contenuto del discorso stesso. Pensando più volte all’obiettivo del nostro laboratorio interdisciplinare, “L’accademia del ben-essere”, mi è venuto in mente che, quando abbiamo a che fare professionalmente con la sofferenza dell’altro, è solo l’uso corretto della parola e l’attenzione ai diversi livelli della comunicazione che può fornire un valido strumento d’aiuto. Scegliendo di focalizzarci, al momento, sulla comunicazione verbale, mi chiedo se il terapeuta e il counselor non debbano “inventarsi” strumenti per perdere meno informazioni possibili. Ad esempio, sarebbe utile chiedere al cliente/paziente di scrivere. Scrivere a casa sua, ma anche durante la seduta, sia a due che a quattro mani, con il terapeuta. Come ben sappiamo, scrivere aiuta a tirar fuori il proprio pensiero più profondo, le incertezze più radicate, i desideri, come le paure e i fantasmi. Scrivere aiuta, ma non penso solo alla scrittura autobiografica. Tutto quello che scriviamo ha anche fare con i nostri vissuti e con la nostra psiche, nel senso più ampio. Solo che i significati non sempre sono evidenti e allora l’aiuto di un professionista della parola talvolta può essere fondamentale per districarsi man mano tra i diversi livelli di significato, che vanno interpretati e singolarmente e in relazione fra loro. E allora, chiedere al cliente di scrivere una storia, anche breve, anche senza finale, di getto, senza grosse riflessioni e considerarlo poi un materiale ricchissimo da cui leggere il pensiero dell’altro e tutto il “retro pensiero”, può essere un’operazione praticabile. E probabilmente utile. Pensiero e linguaggio s’influenzano a vicenda, dicevamo all’inizio, e con tutta probabilità lo fanno in molteplici modi e direzioni e allora lavorare sulla produzione linguistica del soggetto rappresenta una via maestra per accedere alla mente dell’altro. Se la produzione linguistica viene scritta, si possono “fermare” dei passaggi, contemplarli, analizzarli e approfondirli.

Eleonora Castellano, (Tutti i diritti riservati©) www.eleonoracastellano.com 

socia fondatrice dell'associazione culturale L'accento di Socrate



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