Qualcosa in più: intervista all’autrice Eleonora Castellano
Grazie. Sì, è vero, la stesura di questo romanzo non mi ha creato fatica né indugio. È stato naturale raccontare le vicende che coinvolgono Agnese e Mauro; anzi, la difficoltà è sorta quando ho dovuto distaccarmene e mettere la parola “fine”. Ancora oggi, quando rileggo le ultime frasi, continuo a provare quel senso di nostalgia. Ho impiegato quasi un anno per la stesura e un altro per la revisione. Desideravo che il racconto della vita di Agnese e del fratello Down fosse il più possibile aderente alla realtà, quella realtà che ben conosco grazie al mio lavoro. Sono insegnante di Psicologia, Filosofia e Pedagogia e negli ultimi anni ho lavorato soprattutto come docente di sostegno. All’inizio della mia carriera scolastica nel sostegno ho avuto modo di conoscere diversi ragazzi Down e le loro splendide famiglie. Dico “splendide” perché accogliere, accettare, amare un figlio diversamente abile non è semplice, non è immediato. In genere, chi vive la nascita di un bambino malato deve affrontare un periodo difficile, in cui riattraversare le proprie vulnerabilità, fare i conti con le proprie paure, i propri fantasmi; in una parola, metabolizzare la rinuncia alle proprie aspettative e accettare l’altro in quanto “diverso”. Il contatto quotidiano con i ragazzi Down, la scoperta della loro ricchezza umana e affettiva, la possibilità di apprendere da loro mi ha segnata profondamente e mi ha aiutata a maturare, a guardare con occhi diversi il rapporto con me stessa e con gli altri. Tutto questo mi ha spinta a concepire questo romanzo e scrivendolo mi sono ispirata a persone reali, che ho avuto la fortuna di conoscere e apprezzare. L’obiettivo del romanzo è quello di sensibilizzare i lettori nei confronti di tematiche di cui ancora non si parla abbastanza. Il titolo, Qualcosa in più, rimanda a ciò che può compensare il deficit cromosomico delle persone Down, vuoi farci notare che a volte siamo noi ad avere qualcosa in meno? “Qualcosa in più” è un titolo che allude a diversi significati: il cromosoma in più che provoca la malattia; la forza e la passione di chi si dedica all’educazione dei ragazzi Down; ma soprattutto quel “qualcosa in più” che ho potuto sperimentare nella mia relazione con questi ragazzi. Io, come docente di sostegno, entravo in classe allo scopo di accompagnare e favorire un percorso di crescita e di autonomia e tante volte ne uscivo arricchita. Ricordo un episodio emblematico: in quel periodo non stavo bene a causa di mie problematiche personali; una mia allieva Down si accorse che c’era qualcosa che non andava e mi pose delle domande. Nel suo sguardo limpido lessi un interesse autentico, un affetto sincero. Le raccontai cosa mi angustiava e lei mi sostenne in un modo che non dimenticherò mai. Con il suo eloquio, non sempre perfetto grammaticalmente, mi disse delle cose così vere, così profonde che mi fecero riflettere e considerare il mio problema sotto una luce diversa. Nessuno dei miei amici “normodotati” era stato capace di pormi quelle domande e di guidarmi in quel ragionamento. Questo è accaduto perché la mia allieva, scevra da strutture mentali standardizzate e libera da pregiudizi sociali e culturali, ha saputo fornirmi una chiave di lettura inconsueta, ma autentica, spinta da intuizioni e aiutata dalle sue doti di empatia. Ecco perché le persone Down hanno spesso “qualcosa in più” e noi “qualcosa in meno”, accecati da schemi precostituiti e rigidità mentali. Solo mettendo da parte sentimenti come imbarazzo, vergogna, senso di superiorità, compassione, potremo bypassare tanti limiti e arricchirci vicendevolmente. Nel romanzo incontriamo tre storie d’amore, qual è il filo rosso che le unisce? Il filo rosso si snoda lungo l’asse “accettazione/rifiuto” dell’alterità. Nella prima storia si sviluppa un amore sincero, che va al di là delle difficoltà cognitive e che si fonda sulla disponibilità reciproca ad accettarsi e a crescere insieme. Nella seconda storia d’amore s’innesta invece una relazione in cui non c’è riconoscimento reciproco, in cui ciascuno rimane intrappolato nel proprio recinto emotivo, incapace di vedere l’altro per quello che è. Infine, il sentimento che nasce tra i protagonisti della terza storia d’amore si gioca sulla capacità di cogliere la vera essenza dell’accettazione, partendo dalla consapevolezza di sé. Le tre storie non si svolgono in successione, ma s’intrecciano tra loro nella trama del romanzo. Hai ambientato la parte più importante del romanzo a Lampedusa, una terra di transito e di accoglienza; un’isola per sua natura “isola”, questa invece accoglie e mette in salvo tanti esseri umani: che rapporto hai con la splendida perla del Mediterraneo? Conosco
Lampedusa perché vi ho trascorso delle vacanze e poi ne ho
approfondito la conoscenza spinta dalla curiosità di capire
le dinamiche degli sbarchi e dell’accoglienza. Mi ha colpito
il contrasto tra l’aridità del suolo, la bellezza
esotica delle sue coste e il rapporto fecondo tra i tunisini e i
lampedusani, che, pur tra mille difficoltà, si aprono al
“diverso” e allo “straniero”. Nel mio
romanzo desideravo affrontare diverse tematiche, compresa quella
dell’intercultura, e allora ho cercato di far sfiorare tra
loro personaggi diversi per retroterra culturale e mentale (le
persone Down, i tunisini, i siciliani), mostrando come fosse
possibile l’incontro e il confronto. Ricordo di un lavoro
interdisciplinare che organizzai a scuola con i miei allievi Down
proprio sul tema dell’intercultura e quanto profonde e
ricche di solidarietà fossero le frasi dell’intervento
che un mio allievo Down fece ad un seminario sul tema, stupendo
tutti con la spontaneità con cui fu capace di esporre le
sue idee al microfono. Nel mio romanzo Lampedusa rappresenta quel
luogo, sia fisico che metaforico, in cui esplorare nuovi orizzonti
e approfondire la conoscenza e l’accettazione di sé e
dell’Altro come parte di sé, ma anche come altro da
sé. Non a caso il dipinto di Donatella Signorino, che viene
riprodotto in copertina, s’intitola “Il mare della
vita”. Maria
Giovanna Farina
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