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Domani lei partorirà!

Domani lei partorirà” sentenziò la voce metallica della dott.ssa Miceli, la ginecologa che in quei lunghi, strani mesi mi aveva, a modo suo, condotta fino a quel punto. Dico a modo suo perché non avevo mai conosciuto una donna medico così. Altera, professionale, distaccata. Eppure si occupava di una materia calda, primordiale. Sacra. Era un’esperta di gravidanza e aiutava le donne in difficoltà a mettere al mondo i frutti del proprio corpo, a stanare i problemi, presunti o reali, a realizzare un sogno. Tuttavia la sua personalità mi appariva in totale dissonanza rispetto al ruolo che ricopriva.

Adesso, con la freddezza che la contraddistingueva, mi annunciava che l’attesa era finita. Ero fuori tempo massimo, il liquido amniotico si era ridotto. Matteo doveva nascere. E io, che mi ero preparata per bene durante quei nove mesi (avevo seguito corsi, mi ero guardata dentro più volte, mi ero convinta di essere psicologicamente pronta), scoprii all’improvviso che pronta non lo ero affatto. Gli occhi mi si riempirono d’orrore, il cuore cominciò a pompare forsennato, le gambe divennero molli. Raggiunsi mia madre in sala d’attesa, come in trance le comunicai che l’indomani probabilmente sarebbe diventata nonna. Lei quasi applaudì dalla gioia. Beata lei.

Quel giorno trascorse, giunse sera. E io, attraversata da un tornado di paure, non feci altro che controllare ripetutamente la valigia da portare in ospedale, per verificare che non mancasse nulla, come fossi una malata di disturbi ossessivo/compulsivi. Malata grave, è bene precisarlo. Non mancava niente, solo quel pizzico di spavalderia che nei mesi precedenti mi aveva fatto urlare al mondo che del parto non avevo timore. Anzi, lo aspettavo da una vita: desideravo mettermi a confronto con il mio limite.

Quello che nessuno ti spiega (forse volutamente) è che al parto non ci s’incontra con il proprio limite. Quello si supera ben presto. La vera tragedia è che ti viene richiesto qualcosa che va al di là della tua stessa umanità. Devi compiere l’impossibile, accettare di farti devastare dal dolore.

Questo nessuno te lo dice ed è forse un bene.

L’indomani, quello del fatidico giorno, vissi la mia esperienza estrema.

Quella del non ritorno.

Quattro ragazze (tutte un po’ attempate, a dire il vero; io, con i miei 35 anni, ero la più giovincella) fummo sottoposte alla prima fase dell’induzione: una dose di gel spalmata nel punto giusto.  Cominciammo a camminare su e giù per il corridoio dell’ospedale, a farci le vasche, come ci avevano consigliato. Aiutavano, ci avevano detto. E i nostri sguardi strampalati s’incrociavano; sempre la solita domanda: “Come stai?” “Troppo bene, purtroppo… E tu?” “Idem”. Quella è forse l’unica situazione della vita in cui ti danni perché stai troppo bene. Ma l’arrabbiatura vera, necessaria, doveva venire da mia madre. Al telefono, due ore dopo l’induzione, la pregai di non raggiungermi in ospedale; bastava il mio compagno a tribolare con me e poi chissà quanto c’era ancora da aspettare. L’avrei chiamata all’inizio del travaglio. Ma mentre le ripetevo di non insistere, ecco che avvertii uno strappo nelle zone basse… Mia madre era riuscita laddove il gel non aveva potuto: farmi rompere le acque! Che poi… mi aspettavo le cascate del Niagara e invece si trattò di ben poca roba. Deludente, direi.

Ebbi appena il tempo di raggiungere il lettino della sala parto che cominciò l’incubo.

Due ore. Due ore soltanto. “Che fortuna!” esclama tuttora qualche mia amica. Mah… In quel momento non mi sentivo affatto fortunata. Le contrazioni erano violente, ravvicinate, insopportabili. A quel paese l’ostetrica del corso che ci diceva che le prime ore del travaglio erano sopportabili e il dolore graduale!, urlai dentro di me, che ormai odiavo il mondo e desideravo morire al più presto e non sentire più nulla. Intimai al mio compagno di non muoversi dal mio capezzale, ma di non azzardarsi a toccarmi. Mi ubbidì come mai aveva fatto nella vita (e come mai più farà…).

Nella mia mente si creò un corto circuito. Vedevo gente fluttuare intorno e mi chiedevo perché dovevo soffrire come un cane solo io. Ad un tratto mi resi conto che nella sala c’erano ben quattro ostetriche che mi assistevano. Erano disoccupate, le altre ragazze stavano ancora “troppo bene”. E poi, sorpresa delle sorprese, entrò nella sala anche la glaciale dott. Miceli, che, all’occasione, si trasformò. Divenne un angelo con le ali dispiegate; col suo sorriso (ebbene sì, quella donna sapeva sorridere) illuminò quell’inferno e assunse definitivamente le sembianze di un essere soprannaturale. Venne a stringermi una mano e mi disse che si era fatta cambiare il turno per potermi assistere. “Va bene, Castellano, è proprio brava. Si sta sbrigando, complimenti!” e poi, qualche minuto dopo, m’incitò con le lacrime agli occhi: “Castellano, spinga! Spinga ancora due volte, non si arrenda e il bambino sarà fuori!”

Quelle parole mi diedero la forza di smuovere la montagna, quella forza che mi mancava.

Mandai mentalmente a quel paese quell’esercito di ostetriche, che schiamazzava davanti al mio pube e che urlava festoso che il bambino era molto capelluto, “Un morettino!”; assestai un morso al braccio dell’infermiera che aveva il compito di spingermi dalla pancia e come un kamikaze mi lanciai in quella che mi appariva come l’ultima impresa della mia vita. L’urlo che cacciai si tramanderà ai posteri di quell’ospedale e fece vacillare l’intero sistema, che da quel momento non fa altro che scricchiolare…

La vita e la morte si sfiorarono; potei guardare in faccia per la prima volta Eros e Thanathos in persona, forze del desiderio così assurdamente simili.

Sopravvissi e così mio figlio.

Era un frugolino e io non comprendevo ancora quella frase che la ginecologa mi ripeté più volte col viso emozionato: “Ecco: questo è suo figlio”. Me lo misero sul petto; chiusi gli occhi e respirai profondamente. Ero viva. Matteo era vivo. Un po’ accartocciato, a dire il vero; pareva un pulcino spennacchiato, ma era vivo.

Il passaggio dall’inferno al paradiso fu istantaneo.

Poi guardai il mio compagno, più provato di me, e gli dissi: “Ti spiace se, dopo lui, figli non ne voglio più?” “D’accordissimo” fece, a pezzi.

Da quel momento nulla fu più come prima. Un’immensa felicità pervase la nostra vita.

Adesso, manco a dirlo, sono in attesa del mio secondo figlio!

Eleonora Castellano


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