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			Intervista
			al poeta Vincenzo Calò 
			
			 
			 
			
			Vincenzo
			Calò è autore di un libro dal titolo interessante:
			C’è da giurare che siamo veri. Gli abbiamo
			posto tre domande per conoscerlo meglio. 
			
			 
			 
			
			 Hai
			pubblicato un libro C’è da giurare che siamo veri ed.
			Il Filo,
			in che senso?
			 Il
			sesto…! Quello che ci garantiremo se non arrecheremo ansia
			alla bellezza delle cose o persone che paiono perdute, trovando
			luoghi e argomenti da cacciatori ciechi che si stringono un cuore
			in mano trapiantabile. Occorre solamente avere il coraggio di
			riconoscersi estranei ai bisogni primari, prima di riunirsi ad
			esempio in un comodissimo clic che faccia espandere una
			meravigliosa cornice, vuota giustappunto per riempirla di dettagli
			sull’orlo dell’inanimato. Abbiamo raggiunto suoni,
			colori, odori di una curiosità che non si deve stancare di
			viaggiare, ma è l’opinione pubblica che deve metterla
			a disposizione di chi n’è testimone di un’attenzione
			sconsiderata, costui o costei è quell’essere bramoso
			di poteri predefiniti, che rientra nella sua presunzione spacciata
			come rispetto per tutti. 
			 Che
			rapporto ha la tua poesia con la filosofia?
			 La
			corda che lega queste esplorazioni non rientra mai in scena, è
			dettata da esperienze talmente intime che a raccontarle non
			eleveresti mai per intero un sollievo. Io mi auguro di navigare in
			atmosfera aperta come scrutare dal buco della serratura tavole
			imbandite di alimenti che magari ho dimenticato di aver servito
			perché troppo preso dalla loro produzione. Oltre, non
			voglio immaginare come si esaurisce la parola che riassume certe
			allegorie, dunque ci scarabocchio sopra i suoi significati, fino a
			sognare di fare un’opera d’arte che possa indurre al
			Domani, ad un’epoca di riappropriazione degli sprechi
			materiali per quell’elevazione sociale ch’è
			impossibilitata dal suo stesso diritto d’autore,
			avvicendatosi per avvenimenti dalla Passione non più forte
			e sentita (la triste magia dei media?). L’essere poeti è
			un destino o una scelta?  Oggigiorno non mi avvalgo di
			denominazioni, omaggio l’anonimato civile con quella
			spontaneità dai Sali & scendi che inducono al vomito
			dell’Ego. La sensibilità consiste nei progetti dei
			turisti di passaggio da un’autonomia all’altra, in
			circostanze di puro affronto psicologico. Per sostenere la società
			non v’è sentimento che tenga, ma nemmeno il
			pregiudizio sul moderno che chiuda l’individuo nel suo colpo
			di fortuna. Occorre stabilire la messa in discussione del proprio
			potenziale a cominciare dai retrogusti, che non sanno di
			contemplazioni al naturale, così avremo modo di sorridere
			ai nostri limiti perché sanno di nulla di speciale, e di
			ricominciare daccapo, a sapere d’essere grandi nel nostro 
			piccolo,
			a coinvolgere per costituire brillanti azioni di principio attivo,
			esistenziale. Ma ricaveremo poesia nel vero senso della parola,
			come ossigeno, se l’identità del destinatario delle
			nostre scelte di Vita non verrà mai resa nota.  
			La
			Redazione 
			
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