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La pelle che abito: e se gli uomini avessero l’utero?

 



Il nuovo film di Pedro Aldomovar, La pelle che abito, è la storia di un chirurgo estetico sconvolto dalla morte della moglie carbonizzata e poi suicida, ma ancor prima afflitto per la violenza sessuale subita dalla propria figlia che diventa folle. Allora rapisce il violentatore e lo trasforma in donna trapiantandogli su tutto il corpo una nuova pelle transgenica molto più resistente di quella umana. Giunge infine ad innamorarsi di questa sua creatura resa da lui a immagine della moglie che ha perduto.

Quando esci dal cinema senti che questo nuovo film del regista spagnolo ti è piaciuto, ma ti lascia incapace di comprenderne subito la ragione. È necessario infatti distinguere i diversi piani di lettura che si intrecciano, poi si deve tener conto che la pelle è un mezzo di interazione con gli altri: è la nostra pelle a frasi tramite, a toccare, e allo stesso tempo a proteggerci dal mondo. Nel film il chirurgo fa una vagino-plastica al violentatore, è certamente una vendetta ma anche un atto estremo di chi vuole porre la questione della brutalità: se certi maschi provassero la violenza sulla propria pelle, dentro di sé come una donna, violenterebbero ancora l’altro sesso? Una pelle transgenica potrebbe risolvere tante brutte deturpazioni femminili, perché ostacolarne lo studio e la sperimentazione? Allo stesso tempo alcune conoscenze scientifiche se finite nelle mani sbagliate potrebbero dare luogo a operazioni pericolose ed eticamente poco accettabili. Il regista ci dà alla fine un messaggio di speranza: puoi cambiare il tuo involucro ma nella profondità della tua anima sarai sempre tu con tutto ciò che provi, perché ciò che conta è il contenuto e non il contenitore. L’aspetto a tratti paradossale di questa pellicola spinge a riflettere anche sugli accanimenti estetici, su quella ricerca della perfezione estrema che può diventare mania.

Maria Giovanna Farina


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